Un capolavoro, una pietra miliare
nella storia del cinema. Questo è Hiroshima mon amour, film del regista francese Alain Resnais (1922-2014), uscito nel
1959 (scritto in collaborazione con la scrittrice Marguerite Duras), un
gioiello che andrebbe visto e rivisto. Nato come documentario, si è trasformato
nella narrazione di una storia d’amore vissuta in una Hiroshima ancora
sofferente per le mutilazioni subite dalla bomba atomica sganciata dagli
americani il 6 agosto 1945.
La protagonista è un’attrice
francese (Emmanuelle Riva) che si trova a Hiroshima per interpretare un film
pacifista; la donna ha conosciuto la guerra in Europa, e ora percorre le strade
di questa città fantasma, incrociando gli sguardi della gente segnata da un
trauma non ancora guarito. Il protagonista maschile è un giapponese, un
architetto (interpretato da Eiji Okada che nel film è un architetto), impegnato
a ricostruire, con altri, la città devastata dalla bomba atomica.
All’inizio del film le immagini
di distruzione colpiscono l’occhio dello spettatore, ma il film non è una
pellicola pacifista, né una denuncia delle atrocità cui può arrivare l’essere
umano. Esso narra una storia d’amore nel tetro scenario di Hiroshima: un amore
forte, coinvolgente, che sembra voler rilanciare l’essenza della vita dentro
una città, un mondo, che non esiste più. Tuttavia è un amore senza speranza,
sia perché la donna afferma che ripartirà subito per la Francia, sia perché il
contesto non lo permette. D’altra parte, nel film quel che più conta appare
essere proprio lo scenario, lo sfondo. Resnais narra una storia d’amore sorta nella
tragedia, un’avventura fugace vissuta in una città nella quale forse gli autentici
protagonisti sono gli uomini che stanno ricostruendo se stessi e la loro città.
I due innamorati osservano dall’esterno questa ricostruzione, perché sono
entrambi alla ricerca di se stessi, impegnati nello sfiancante e vano tentativo
di recuperare la propria memoria, il proprio senso dell’esistere.
La donna vive con maggiore tormento
questa situazione, ma non in senso moralistico, giacché confessa che le è
capitato altre volte di vivere avventure durate una sola notte: “mi piacciono
gli uomini”, afferma con un sorriso. Nondimeno, l’inquietudine l’assale presto perché
le appare folle quel che è accaduto e la follia, come l’intelligenza, ella
sostiene, “non si può spiegare. Ti viene addosso, ti riempie di sé, e allora la
capisci… Ma quando t’abbandona, non la capisci più”. C’è qualcosa nella sua
memoria, nel suo passato, che la consuma; un dramma che emerge lentamente: la sua tragedia individuale, nello scenario di morte
rappresentato da Hiroshima, sembra possa fondersi col dolore di tutti. Però si
tratta di un’illusione: nulla consente alla donna di scordare la sua storia
triste, vissuta durante la guerra in Francia, in una cittadina chiamata Nevers,
dove ella viveva con i genitori. Non le serve trovarsi dall’altra parte del
mondo, né tuffarsi in una nuova storia d’amore.
La donna commette, forse in buona
fede, un errore. Crede che il suo amore giapponese sia capace di sostituire un
amore vissuto anni prima e distrutto, come Hiroshima, dalla guerra. L’amore provato
in gioventù per un soldato tedesco, per l’invasore e per il nemico della
Francia, continua a tormentarla; la sua colpa non è stata solo quella di amare
uno sconosciuto, ma anche di aver amato un nemico, un soldato dell’esercito
nazista. Un uomo che fu ucciso sotto i suoi occhi, mentre lei si recava a un
appuntamento con lui, per fuggire da Nevers, alla vigilia della liberazione
della Francia. Per questo la ragazzina d’allora è stata considerata una
traditrice: le hanno tagliano i capelli, l’hanno osteggiata. Per questo i suoi
genitori l’hanno rinchiusa nella cantina, cercando di farla sparire perché
disonorata. Mentre parla con il suo amore giapponese, la donna rievoca questi
fatti rivivendoli: il flash-back consente allo spettatore di seguire il
racconto in modo vivido. Per la donna quel passato drammatico è un presente,
perché fa corrispondere, nelle sue parole, l’uomo giapponese che adesso ama con
il soldato tedesco amato un tempo. Infatti, lei parla al presente e dice: “Io
ti cerco, ti desidero, ma tu sei morto”.
La miscela magistrale di suoni e
immagini che Resnais confeziona fa oscillare lo spettatore tra il passato e il
presente senza creare confusione né cortocircuiti nel meccanismo della memoria;
la sovrapposizione tra le immagini di Hiroshima alla fine degli anni Cinquanta
e quelle di Nevers durante la guerra crea una contemporaneità che spaventa i
due protagonisti, e che mostra l’eccelsa padronanza della tecnica
cinematografica da parte di Resnais. I due protagonisti si sentono indifesi davanti alla
forza incontrollabile del ricordo che irrompe improvviso nelle loro vite e che scombina
la loro relazione. La donna soprattutto appare sconvolta perché non riesce a
dimenticare pienamente, né a rivivere il passato come vorrebbe.
Il fardello di malinconia ha, per
lei, un peso insopportabile e sembra produrre una doppia disillusione: la
memoria di una tragedia collettiva come quella causata dalla bomba atomica non
cancella nessun ricordo individuale, come la donna auspicava; inoltre, l’amore
per l’uomo giapponese non la consola. La guerra ha portato Hiroshima alla
catastrofe e ha distrutto il suo amore giovanile. Si crea così, grazie alla
raffinatezza del regista che ricostruisce la vita passata della donna con un
uso magistrale della tecnica del flash-back, un parallelo tra la tragedia
collettiva e quella individuale. Hiroshima è il tentativo per dimenticare un
dolore che non si può scordare, ma è anche il “nome” di un amore nuovo, di una
memoria che continua a pesare sulla donna e che non è quella di tutti, ma solo
la sua. Hiroshima è l’amore della donna ma è anche la sua disperazione.
In Hiroshima mon amour l’uomo
e la donna non hanno nemmeno un nome. Sono come cose. Più simili a statue che a
persone, oggetti d’arredo cui hanno inflitto, loro malgrado, un’anima. Entrambi
sono lacerati tra due esigenze inconciliabili: il compito di ricostruire e il
dovere di ricordare. Quando lui le dice: “Tu non sai ricordare”, lei ribatte:
“Come te anche io ho cercato di lottare con tutte le mie forze contro la
smemoratezza. E come te non sono riuscita a ricordare … come te ho desiderato
avere un’inconsolabile memoria, fatta di ombre e di pietra”. Ma perché questa
insistenza nel voler ricordare? Forse perché senza passato e senza memoria
l’uomo non può esistere: nessuna bomba atomica, nessun ordigno bellico, anche
il più potente, potrà incenerire il ricordo, sebbene possa distruggere
un’intera popolazione.
L’uomo giapponese ha una storia
diversa. Anch’egli è stato ferito dalla guerra, ma la sua ferita è veramente
collettiva: è quella di un intero popolo distrutto dalle bombe atomiche
sganciate dagli americani a Hiroshima e a Nagasaki nell’agosto 1945; egli
appare un personaggio meno tormentato, o meglio, capace di condividere questo tormento
con quello di un’intera nazione che, seppure sconfitta dalla guerra, si sta
riprendendo con grande spirito di abnegazione.
Il regista riesce a riprodurre il
senso di spaesamento e confusione che disorienta i personaggi senza far perdere
tensione drammatica alla storia; tante cose sembrano apparire in modo sfumato:
i caratteri dei personaggi, i sentimenti, i palazzi, le persone. Distinguere
una cosa dall’altra, a Hiroshima, non è facile. Amare e morire sono divisi da
una linea assai sottile. Come dice l’attrice all’inizio: “Chi sei tu? Tu mi
uccidi e mi fai del bene”.
Durante il film la donna soffre anche
perché è non sa se andare via o restare. A volte sembra voler restare in
Giappone per dimenticare ogni cosa e iniziare un’esistenza nuova. Ma non è
capace di decidere. È torturata dal ricordo, dalla consapevolezza di quanto la
vita sia guidata dalla casualità, e da come questa casualità cosmica influenzi
ogni singola esistenza. Se gli americani non avessero sganciato le bombe, lei
avrebbe incontrato quell’uomo, a Hiroshima, lo avrebbe amato, anche solo per
pochi giorni? Se non avesse amato quel soldato tedesco, sarebbe fuggita dalla
Francia, cercando rifugio dall’altra parte del mondo? Domande vane.
Verso la fine del film i due
passeggiano distaccati, lontani; lui le chiede di rimanere a Hiroshima, ma lei
non risponde, pensa ancora al soldato tedesco morto, al suo amore di
quattordici anni prima. Nell’inquadratura successiva, nel deserto mercato
coperto della città, lei passeggia da sola. Quando si rivedono seduti su una
panchina, la donna riflette: “Il nome si cancellerà poco a poco nella nostra
memoria; poi sparirà del tutto”. Non può rimanere, perché restare in Giappone
significherebbe rivivere ogni giorno lo sfortunato amore d’un tempo; eppure,
proprio amando quell’uomo giapponese, lei tiene viva una parte di sé, del
proprio passato. Per questo dichiara: “Restare è più impossibile ancora che
lasciarci”. Ma l’uomo la vorrebbe tutta per sé, perché sa di non essere quel
soldato tedesco: “Avrei preferito tu fossi morta a Nevers”. “Anche io. Ma non
sono morta”, lei risponde.
Se è impossibile dimenticare una
tragedia come quella di un amore infelice, altrettanto impossibile è poterla
rivivere, o pensare che l’amore nuovo possa riscattare quello vecchio, quello
provato dalla “ragazzina di Nevers” per il soldato tedesco. Il film termina
affermando una duplice assurdità: quella di dimenticare e quella di rivivere qualcosa
che appartiene al passato. Era un’illusione fuggire dalla Francia per scordare
il soldato tedesco, come è un’illusione credere che il nuovo amore giapponese
possa identificarsi con quel lontano amore giovanile.
La donna alla fine afferma che il
nome del suo amore giapponese è Hiroshima
perché condensa dentro di sé il dolore di un’intera città, senza vergognarsene,
senza volerlo né dimenticare né riscattare. Lui invece dice alla donna che il
nome di lei è Nevers, perché si rende
conto che non potrà mai amarlo come se fosse la prima volta, come se alle loro
spalle non esistesse null’altro che il loro amore. È contraddittorio e
disperato questo desiderio, eppure permea l’intero film: “Come in amore esiste
questa illusione, questa illusione di non poter mai dimenticare, comunque, io
ho avuto l'illusione davanti a Hiroshima di non poter mai più dimenticare”.
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