Nelle prime 40 pp. dello Zibaldone, Giacomo Leopardi discorre,
tra le altre cose, dell’essenza della poesia. Egli sostiene che se il poeta non
imita la natura, se non si fa guidare da una sorta di istinto e dalla “bella
negligenza”, riduce la poesia ad arte, rendendola fredda. È questo l’errore
principale compiuto da molti poeti moderni, i quali riducono la poesia ad arte rarefatta, tradizionale; per queste ragioni la poesia è stata autentica solo al
tempo degli antichi poeti greci e romani, mentre solo rari autori “moderni”,
tra i quali Dante, Petrarca e Ariosto, sono stati capaci di offrire poesia
genuina. Tali affermazioni rispecchiano l’idea secondo cui “la ragione
facendo naturalmente amici dell’utile proprio togliendo le illusioni che ci
legano gli uni agli altri, scioglie assolutamente la società, e inferocisce le
persone” (p. 24); poiché la Natura è superiore alla ragione, un’esistenza
guidata dalla natura vale di più di un freddo e razionale modus vivendi.
In questa fase primaria del suo
pensiero, Leopardi adotta un’immagine benigna della natura; tuttavia, in una
fase più matura del suo pensiero, sia più tardi nello Zibaldone, che negli Idilli
e nelle Operette morali, la natura verrà
giudicata come responsabile dell’infelicità dell’uomo.
In questa fase embrionale della
propria riflessione, Leopardi sostiene che la natura è colei “che spinge i
grandi uomini alle grandi azioni. Ma la ragione li ritira: e però la ragione è
nemica della natura” (p. 16). Dunque una poesia naturale è sinonimo di poesia
genuina, autentica: tali erano le opere poetiche dei poeti antichi. Il motivo
che determina questa situazione è il seguente: gli antichi non avevano esempi
di poesia alle loro spalle, perché furono i primi a comporre versi, prima
cantandoli poi scrivendoli; Omero era sommamente libero di creare poesia
imitando la natura, poiché non era influenzato da poesie composte prima di lui,
né da canoni e modelli estetici da imitare; più avanti, nell’età della Grecia
classica, benché la produzione poetica (e teatrale) fosse certamente aumentata,
non c’era ancora, come succede nell’età moderna, un insieme organico di
stili definiti e di topoi artistici prestabiliti:
“Eschilo per esempio, inventando ora una ora un’altra tragedia senza forme usi
stabiliti, e seguendo la sua natura, variava naturalmente a ogni composizione”
(p. 40).
I poeti moderni, invece, operano
dopo secoli di creazioni artistiche che hanno codificato stili, metrica,
argomentazioni; per loro è quasi impossibile essere originali, perché hanno di
fronte un gran numero di esempi di poesia ai quali è difficile non guardare.
Non si parla naturalmente di coloro che copiano, i quali si squalificano da sé,
ma di quelli che credono di fare poesia originale: questi ultimi, benché non si
rifacciano espressamente a modelli pregressi, sono ugualmente influenzanti,
diremmo oggi a livello “inconscio”, dalla produzione passata: “per quanto un
poeta si voglia allontanare dalla strada segnata a ogni poco ci ritorna, mentre
la natura non opera più da sé, sempre naturalmente e necessariamente
influiscono le idee acquistate che circoscrivono l’efficacia della natura” (p.
40).
Tali riflessioni si ricollegano a
quanto Leopardi aveva affermato all’inizio dello Zibaldone, allorché, riflettendo sul significato dell’arte poetica,
aveva ripetutamente assunto come criterio estetico di base dell’arte la sua
capacità di guardare al Vero, ovvero di imitare la natura: “La perfezione di
un’opera di Belle Arti non si misura dal più bello ma dalla più perfetta
imitazione della natura” (p. 3). La poesia, infatti, non deve mostrare
semplicemente il “bello”, né l’utile, ma imitare anch’essa la natura, se vuol
dilettare, essendo il “dilettare l’ufficio naturale del poeta” (ivi).
Non è difficile immaginare perché
Leopardi, date queste premesse, sostenga la superiorità degli antichi rispetto
agli autori moderni; egli, infatti, crede che il progredire dei secoli si sia
caratterizzato per la graduale affermazione della ragione, della volontà di
spiegare il mondo razionalmente, a scapito della semplicità e della genuinità
delle scienze e delle arti. Secondo l’autore questo processo è inevitabile, tanto
è vero che l’uomo è la più infelice delle creature perché è la sola che può
pensare, che può rendersi conto di quanto il possedere un alto grado di
consapevolezza sulla propria essenza renda amara l’esistenza. Leopardi
rimpiange il carattere “fanciullo” degli antichi, e guarda alla loro epoca come
a un’era di cultura autentica, limpida, poiché gli antichi “erano fanciulli che
non conoscono i vizi, noi siamo come vecchi che li conosciamo ma pel senno e
l’esperienza li schiviamo” (p. 4). Noi moderni, insomma, siamo solo più
scaltri, ma non più intelligenti. E se riusciamo ancora a vivere in società, lo
dobbiamo alla religione che ha il merito di conciliare ragione e natura,
armonizzando, grazie “all’amore delle cose invisibili di Dio ec. e la speranza
di premio nella vita futura … la grandezza generosità sublimità, apparente
pazzia delle azioni (come son quelle dei martiri ….) colla ragione” (p. 37).
Queste sono le premesse che inducono
Leopardi ad assegnare la palma di unica poesia autentica alla poesia degli
antichi (eccetto le suddette eccezioni di autori vissuti nell’epoca moderna);
per questo egli critica la riflessione di un suo contemporaneo, Lodovico di
Breme (1780-1820), che, dalle pagine del Il
Conciliatore, era assertore della superiorità della poesia “romantica”.
Dice Leopardi che il Breme è convinto che il fondamento della poesia sia il “patetico
o sentimentale”, ovverosia “la profondità di sentimento che si prova nei cuori
sensitivi”, qualcosa che invece era sconosciuto agli antichi, i quali non
potevano giungere a tali profondità di sentimento. Leopardi non accetta questo
primato della poesia romantica, perché la giudica capace di destare solo sentimenti
non autentici, che non sgorgano puri dall’imitazione della natura quale essa è
effettivamente: “il poeta quanto più parla in persona propria e quanto più
aggiunge di suo, tanto meno imita (cosa già notata da Aristotele…) …. il
sentimentale non è prodotto dal sentimentale, ma dalla natura, qual ella è, e la natura quel ella è bisogna imitare, ed hanno
imitata gli antichi” (p. 16).
La condanna della poesia a lui
contemporanea colpisce anche quella ispirata al classicismo; per esempio, la
poesia di Vincenzo Monti non è apprezzata da Leopardi per la “ributtante
freddezza” (p. 36), per il suo rifarsi pedissequamente agli autori greci e
latini. A proposito di opere montiane quali il Bardo o la Basvilliana,
il Nostro scrive: “è così manifesta la freddezza del suo cuore che non vale
punto a celarla l’elaboratezza del suo stile e della sua composizione” (p. 36).
Un giudizio assai netto nei confronti di Monti (che quando Leopardi cominciò a
comporre lo Zibaldone era ancora in
vita), dettato probabilmente da esigenze di critica letteraria, anche perché il
Monti non è un classicista tout court.
In definitiva, per Leopardi “il
danno dell’età nostra è che la poesia si sia ridotta ad arte, in maniera che
per essere veramente originale bisogna rompere violare disprezzare lasciare da
parte interamente i costumi e le abitudini e le nozioni” (p. 39); d’altra
parte, è inevitabile che un artista moderno cerchi anche il consenso del
pubblico, il quale è in genere restio ad accettare stravolgimenti in campo
artistico. Perciò, Leopardi sembra sostenere che la riduzione della poesia del
suo tempo ad arte sia dovuta a una sorta di concorso di colpa tra autori poco
coraggiosi e pigri e tra un pubblico allergico a stili innovativi.
Se si pensa ai mirabili componimenti
di Leopardi contenuti negli Idilli,
si può ipotizzare che quest’analisi sull’essenza della poesia e sullo stato
della poesia a lui contemporanea, sia stata fondamentale per donare alla sua produzione
lirica un carattere eccelso, capace di innovare la poesia italiana di allora.
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