“Sono un operaio
specializzato che, con passione e serietà, tutti i giorni della propria vita ha
timbrato il cartellino. Undici campionati giocati di fila, mai un raffreddore,
mai un infortunio. Anni e anni in panchina ad assumermi responsabilità e a
metabolizzare insulti. Sempre al mio posto, a qualunque condizione. Se davvero
sono stato un monumento, come qualcuno ancora dice, sono stato un monumento ai
lavoratori. Questa è stata la mia minuscola grandezza, la mia vita, la mia
dignità”.
Solitamente le autobiografie
di calciatori sono libri che vivono una sola stagione, scritti per raccontare
la carriera di un idolo, appannaggio di tifosi e giornalisti sportivi,
destinati a un affrettato dimenticatoio. Nel caso dell’autobiografia di Dino Zoff non è così, per
diverse ragioni. In primis, perché si tratta di un “calciatore d’altri tempi”,
che ha smesso di giocare nel 1983, e che oggi è un anziano signore la cui fama
si conserva intatta; in secondo luogo, perché Zoff non racconta semplicemente
la sua carriera, ma la sua vita, della quale il calcio è stata una parte
fondamentale, ma non l’unica. Ci sono delle confessioni di fatti intimi che
danno la dimensione dello spessore dell’uomo, come il senso di colpa provato
per essersi allontanato troppo presto dai genitori: “Nemmeno quando sono
morti io c’ero. Ormai è andata così. Ma questo sarà sempre il grande rammarico
che mi porto dentro. La mia colpa più grande”.
Ci sono anche i rimpianti
legati anche alla sua carriera di sportivo. Non tanto per qualche campionato
perso o per la Coppa dei Campioni mai vinta (la sconfitta della Juventus contro
l’Amburgo ad Atene nel 1983 fu una specie di trauma: “provammo un dolore
immenso, proprio fisico. Per parecchi giorni una cappa di nero ci avvolse
tutti. Non c’era pensiero, non c’era progetto, non c’era idea che non fosse
tinta di scuro … lì, sul campo, non hai giustificazioni. Non è che qualcuno ti
ha tradito o cose del genere. Non ti puoi lamentare. Hai perso. E basta. È il
bello e, insieme, il tragico del pallone”), bensì per la paura di non essere
stato capace di lasciare il segno. Un’affermazione inaspettata se vergata dal
più grande portiere italiano, da colui che è stato definito un “monumento”; è
un’affermazione colma di amarezza, forse per il tempo che è passato, per gli
anni che sono volati in un baleno, per un calcio non esiste più, nel quale oggi
imperano le televisioni, i miliardi e dove i calciatori sono spesso uomini di
spettacolo: “La verità è che ho vinto qualche coppa, ho battuto qualche record,
ma non ho lasciato il segno, e il tempo si porterà via tutto, come una folata
di vento in autunno spazza le foglie del parchetto sotto casa, dove adesso
gioca a palla mio nipote”. Tuttavia presto la riflessione diviene più ampia,
quasi filosofica: “Ma in fondo è una lezione di vita anche questa: nessuno, per
quanto grandi siano i suoi meriti sul campo, ha il privilegio di incidere
realmente sul naturale fluire delle cose, sulla direzione – giusta o sbagliata
che sia – presa dal mondo”.
Il ricordo sportivo più
inebriante è senza dubbio legato alla vittoria del Mondiale in Spagna nel 1982.
L’inizio fu difficile perché la stampa era ostile alla squadra (“Non saprei
dire perché. Forse avevamo complessivamente troppa personalità”), e non
condivideva le scelte di Bearzot, accusato, nemmeno troppo velatamente, di
essere “vecchio”. Ci fu poi il famoso silenzio stampa, allorché Zoff venne
designato quale portavoce: un contrappasso per un uomo tanto taciturno, ma,
come dice lui “Ero il più anziano, il più esperto. Eravamo in campo
internazionale e bisognava saper dire le cose giuste”; infine, forse perché
cementata dalle critiche feroci, la nazionale iniziò l’epopea. La partita che
rimane nella storia, più della finale contro la Germania Ovest, è quella contro
il Brasile del 5 luglio 1982 a Barcellona. Fu la partita in cui Paolo Rossi,
sin lì criticatissimo, segnò tre gol, diventando una celebrità e un incubo per
i brasiliani. Una vittoria per 3-2 quasi miracolosa, con Zoff che all’ultimo
minuto compie la famosa parata sul colpo di testa di Oscar: “Un tiro micidiale
ormai alla fine della partita. Lui colpì in maniera perfetta, da vicino. Io mi
tuffai all’ultimo, dopo aver letto la traiettoria. Allungai la mano e bloccai
la palla sulla linea. Non fu un miracolo per carità. Fu solo una parata
perfetta”. L’11 luglio, dopo la vittoria, dopo la premiazione, il saluto di
Pertini, il giro di campo, Zoff non è andato a ballare, a divertirsi, ma è
rimasto in camera con il suo amico Gaetano Scirea, per assaporare più a lungo
possibile la gioia: “Ordiniamo qualcosa da mangiare al ristorante dell’albergo.
Ci facciamo aprire una bottiglia di vino buono e ci fumiamo una sigaretta. Poi
andiamo in camera e ci buttiamo sul letto, sfiniti da tutta quella gioia”.
Un intero capitolo è
dedicato a Gaetano
Scirea, libero della Juventus, suo compagno di squadra per dieci anni, poi
suo allenatore in seconda. Scirea è morto in Polonia, in un incidente stradale,
il 3 settembre 1989. Aveva 36 anni. Il dolore di Zoff è reso più pungente non solo
dall’amicizia che lo legava a Scirea, assai simile a lui nel carattere, ma
anche dal fatto che era stato lui a mandarlo in Polonia, a visionare una squadra
che avrebbe affrontato in Coppa UEFA la Juve. La squadra polacca era stata già
vista giocare fuori casa, ma il presidente Boniperti chiese che Scirea andasse
a vederla anche quando giocava in casa nel suo stadio. Zoff si lasciò
convincere e Scirea partì: “Gaetano è morto, bruciato in quella Fiat sulle
strade polacche mentre tornava dalla partita … lì ce l’avevo mandato io, anche
se non avrei voluto”. L’amicizia con Gaetano era forte, saldissima, benché Zoff scriva: “non sono mai stato bravo come Gaetano,
non sono mai stato così sereno, così coraggioso. Io ho sempre avuto più paura,
rispetto a Gaetano, paura di non avere il coraggio necessario per essere
sereno, sempre”.
Zoff nel libro rimarca
diverse volte il fatto di apprezzare, negli altri la serietà, la misura, la
dignità; forse ciò è dovuto alla sua educazione “contadina”, forse alla sua professione,
a quel passare interi minuti in solitudine, là, tra i due pali. È forte il
rischio di perdere la concentrazione, di smarrire il proprio ruolo, perché “un
portiere, durante una partita non può permettersi …. di [compiere] errori. Deve
essere perfetto. È obbligato a esserlo. Anche perché, quando sbaglia lui, il
conto lo pagano tutti”. Forse per questo Zoff ha sviluppato un senso di
responsabilità enorme, connesso alla sensazione di essere spesso colpevole e
alla paura, anche nella vita, di perdere la concentrazione, il controllo di sé.
In campo egli evitava la deconcentrazione facendo mentalmente la telecronaca
della partita, per seguire il gioco anche quando la palla era lontana da lui.
È davvero un bel libro
quello di Zoff: se ne potrebbe parlare per pagine e pagine. Ne viene fuori il
ritratto, oltre che di un portiere eccezionale, di un uomo di spessore, serio,
pieno di dignità, come accade nel 2000, dopo gli Europei persi all’ultimo
secondo. Dopo la finale, Silvio Berlusconi attaccò Zoff, il quale, sentendosi
ferito nella propria dignità professionale, si dimise dal ruolo di commissario
tecnico della nazionale. Cosa accadde dopo? La solita storia italiana, che vede
in chi difende la propria dignità abbandonando un ambiente una sorta di
traditore. Il mondo del calcio ha chiuso le porte a Zoff, dal 2000. Lui all’inizio
si è stupito, poi ha compreso che: “appena qualcuno rompe lo schema e si
ribella, anche solo per difendere la propria dignità, allora viene rapidamente
espulso, e con violenza”.
Un destino simile toccò a Enzo Bearzot, l’allenatore
dell’Italia nel 1982, che Zoff considerava un fratello maggiore, e a cui diede
un bacio la notte di Madrid, quando l’Italia conquistò la Coppa del Mondo. Anche
Bearzot era un uomo pieno di dignità, amante del silenzio, e dunque fuori posto
nel calcio urlato e divistico d’oggi. Tanti si erano dimenticati di lui, finché
il 21 dicembre 2010 non morì, e allora, improvvisamente, ecco le celebrazioni,
i panegirici, anche da parte di chi l’aveva scordato. È l’ipocrisia pallonara,
un atteggiamento caratteristico dell’Italia. Ricorda Zoff: “Sotto l’aspetto
etico, lo definirei un uomo dotato di un’onestà feroce. Non so se ha un bel
suono, come definizione. Ma non importa. Questo era. E per quell’onestà così
ostinata, così contraria all’andazzo comune nell’Italia degli anni Ottanta,
inginocchiata davanti all’edonismo e alla religione dei media, finì per essere
detestato”.
Una vita lunga, da portiere
e da uomo. Difficile racchiuderla in poche pagine, impossibile in poche righe. Lo
sport come mondo a sé, capace di donare gioie immense e feroci delusioni, in
pochi mesi, ravvicinate. Le squadre in cui ha giocato: Udinese, Mantova, Napoli
ma soprattutto Juventus, dal 1972 al 1983, senza mai saltare una partita di
campionato. E poi le persone che ammira o ha ammirato: il Presidente Pertini, papa
Wojtyla, Francesco Guccini (“Sono un suo fan praticamene da sempre, conosco
tutte le sue canzoni a memoria o quasi”); l’amicizia con Giovanni Arpino e
Mario Soldati, lo stretto rapporto con l’avvocato Agnelli. Pagine di vita
indimenticabili, ma vissute sempre con la consapevolezza che “Dura un attimo,
la gloria. E allora bisogna saperla conservare nel cuore, quell’attimo,
consapevoli della sua fragilità e del suo valore, per renderlo eterno”.
Resta, nel ricordo di molti,
un grande atleta, un grane portiere: “Ho fatto il portiere. L’ho fatto alla
grande. Sono stato un uomo fortunato. Basta così. Meglio concentrarsi su quello
che non si è potuto fare prima. Sognare, per esempio. Mi è sempre piaciuto, sin
da ragazzino. Forse è così per tutti, non lo so. Sicuramente lo fu per me … le
mie attitudini mi portavano … fra due pali. Sempre lì. Era qualcosa più di una
predisposizione. Era un modo di vivere. A quattro anni mi buttavo dappertutto a
prendere la palla. Quello era il mio destino. E adesso che il mio destino si è
compiuto, restano i sogni. Anzi, i ricordi. Che sono i sogni dei grandi”.
Nessun commento:
Posta un commento