“Il sangue umano colato sulla segatura ancora parla al sangue pulsante.
Perché tutto il sangue umano è divinamente legato. E per questo l’assassinio
che gli uomini di legge commetteranno giustiziandomi sarà mille volte
vendicato. E porterà ad altri mille assassinii. Lo sa? La testa umana staccata
è una testa tremendamente potente e pericolosa” (p. 113). All'epilogo della
sua vicenda, il poeta Anton Seiler, prossimo a essere giustiziato perché ha
ucciso il suo maestro d’un tempo, lancia questa osservazione contro l'inutilità
della pena di morte. Essa condensa in sé il pensiero dello scrittore tedesco Leonhard Frank (1882-1961), di cui l'editore Delvecchio,
nella traduzione di Paola Del Zoppo, ha appena pubblicato un elegante volume
intitolato L’uomo è buono, che
comprende un racconto lungo, Il male
originario (Die Ursache) e una
serie di novelle pacifiste, riunite sotto il titolo de L'uomo è buono (Der Mensch
ist gut).
Il
male originario, pubblicato nel 1915, è una denuncia di un sistema
penale ingiusto, attraverso il quale le classi privilegiate manifestano il
proprio potere grazie a una modalità di giudizio del reo che privilegia
l'aspetto “economico” della pena, intesa come risarcimento chiesto al colpevole
per il suo atto che è andato a danno dell'ordine sociale. Tale ingiustizia è
l'espressione di un sistema di potere che stabilisce la distanza tra bene e
male secondo i parametri e i valori delle classi dominanti; questo sistema
giudiziario è perciò incapace di impedire che il crimine si compia perché, come
dice il poeta durante il processo: “La
brutalità non porta mai al suo contrario, ma sempre alla brutalità, e quindi
non funziona da deterrente. ‘Porterà ad altri mille assassinii, ha detto. E
mille giudici ingiusti … giudici ingiusti”.
Il protagonista è un uomo in
difficoltà, un emarginato, verso il quale la società prova un istintivo
sospetto; quando egli compie un delitto, uccidendo il suo vecchio maestro, Mager,
colpevole, vent’anni prima, di aver perpetrato dei soprusi contro di lui, egli
diventa il bubbone da eliminare per sanare la società. Ben prima di compiere il
delitto, egli era già un colpevole, in quanto era una persona senza lavoro, in
ritardo nel pagare l'affitto. Naturalmente il fatto di essere un artista non
migliora la sua reputazione; dopo il delitto, la società lo ha definitivamente
bollato: egli è un criminale perché povero, dunque questa sua povertà è una
colpa, perché l'ha condotto a uccidere il maestro per rubare cento marchi.
Il poeta cerca di spiegare
che egli non intendeva uccidere il vecchio maestro, e che era andato a trovarlo
dopo vent'anni solo per avere una spiegazione. Poi, una volta incontratolo,
aveva visto il maestro mettersi a maltrattare un ragazzino, suo allievo,
proprio come faceva con il poeta vent'anni prima. Il trauma infantile si era
dunque riacceso, tornando a premere sull'animo del poeta, rinvigorendo il suo
mai sopito risentimento. «Mager avrebbe
dovuto riconoscere il suo errore e chiedergli scusa. Gli avrebbe dato
la forza di purificarsi, per una vita nuova, più valida».
Queste spiegazioni non
interessano alla corte: essa non ammette moventi psicologici alla base di
un'azione criminosa: per questo il poeta sembra quasi rassegnato alla propria
sorte e a non essere creduto mai. Tuttavia egli intende risalire la catena
delle cause del male, per giungere al male originario, primitivo, assimilabile a
quel “cancro morale” che rode l’Europa di quegli anni. Il colpevole del male è
l’intero genere umano, e la società che consente che pochi uomini vivano da
benestanti, senza mai essere offesi dalla povertà, dal bisogno, dall’esigenza
di sopravvivere. Per costoro è facile non commettere delitti. Ma più in basso
l’imbuto si restringe e “milioni di persone vengono costrette a sopportare
la povertà, a istupidirsi nella miseria e affondare". Per
questi ultimi il delitto è quasi inevitabile, non perché siano malvagi di
natura, ma perché costretti a vivere perennemente nel bisogno. Per il poeta
nella colpa di un individuo si condensa il male dell’intera società. Per questo
egli invita i giurati a guardare più a fondo nel male, a non fermarsi alla
superficie del suo delitto. Nondimeno, la corte non può accettare questa
spiegazione, perché crollerebbe l’impianto giuridico su cui è fondata
l’ingiusta società moderna.
La sensazione che si ha
leggendo le pagine di Frank è quella di assistere a una messa in scena, il
processo, nella quale tutti i protagonisti sono, per qualche ragione, delle
vittime; se è palese che la vittima principale è il poeta, è chiaro che pure i
giurati, essendo incapaci di ragionare al di fuori degli schemi della morale
borghese dominante, sono a loro modo delle vittime. Anche il giudice,
rappresentante di quella legge ingiusta, è vittima, perché agisce come se fosse
diretto da qualcos’altro, qualcosa che lo trascende, in cui egli non ha fede,
ma è tenuto a credere per senso del dovere.
La parte finale del racconto
descrive l’esecuzione del poeta in toni raffigurativi forti, di chiara matrice
espressionistica, come se fosse una sceneggiatura per un film (in effetti Frank
collaborò a diverse sceneggiature). Non vi è realismo nella descrizione della
decapitazione di Seiler, né alcun indulgere su aspetti truculenti, né alcuna
forma di pietismo; al contrario, la descrizione vivida della ferocia
dell’esecuzione, del sangue che esce dal tronco separato dalla testa, si trova
lo stesso spirito di denuncia che ha animato l’intero racconto, denuncia della
barbarie umana.
La tematica trattata da
Frank è spinosa ancor oggi, figuriamoci quanto lo fosse più di cento anni fa
nella Germania guglielmina; l’autore, grazie alla sua conoscenza della
psicanalisi (allora giovane scienza), intende indagare i meccanismi del potere,
che trovano nel sistema giudiziario una formidabile valvola di sfogo. Il fatto
che l’origine del male sia imputabile ai maltrattamenti provati nell’infanzia,
era allora un’idea moderna e rivoluzionaria. Il maestro Mager che umilia il
bambino Anton Seiler è il simbolo di una società repressiva e ottusa, incapace
di essere umana e comprensiva. Frank non crede alla colpa come concetto
individuale, poiché essa è intrecciata al vissuto psichico della persona che è
influenzato dall’ordine sociale, e possiede dunque un carattere collettivo.
La raccolta di novelle L’uomo è buono esprime le idee
umanitarie di Frank, unendole a una concezione pacifista che attacca il vano
massacro di uomini dovuto alla Prima Guerra Mondiale. Secondo Frank il
conflitto mondiale è l’espressione più chiara dell’ingiustizia sociale: i
personaggi delle novelle sono soprattutto quelli che sono rimasti a casa
(genitori, mogli, fidanzate); essi, uno dopo l’altro, vengono a sapere che il
loro figlio o marito è perito in guerra “sul campo dell’onore”. Questa è la
frase ipocrita con cui il comando tedesco annuncia ai parenti la scomparsa del
loro congiunto; ma l’appello al patriottismo, per Frank, è solo un modo per
avere altra carne da cannone da mandare a morire nelle trincee. Il dolore per
la scomparsa del marito non è lenito, nella protagonista della novella La vedova di guerra, dalla
consapevolezza di essere accomunata a tante altre donne nella tragedia. Perché
la questione non è solo legata al dolore immenso per la perdita del proprio
marito, ma all’inutilità di una strage in cui milioni di uomini si massacrano a
vicenda senza comprenderne il motivo. «L’Europa
intera è folle, perché non sa più amare. Non è una follia gioire
alla notizia: Duemila cadaveri francesi giacciono sul nostro fronte?».
Francese o tedesco, un caduto è un essere umano che «voleva tanto vivere ed è morto. Per che
cosa? Perché?».
La guerra è il frutto della
politica borghese, di una società ingiusta, in cui il gruppo dominante ha
interesse a seminare l’odio e la divisione tra gli esseri umani per
controllarli meglio; in realtà, se gli uomini ammettessero di essere tutti
fratelli, ben prima di essere francesi, tedeschi o italiani, tante atrocità si
eviterebbero. Ma questa fratellanza universale nuocerebbe agli interessi
economici e politici. I soldati, una volta morti, non hanno più patria: sono
esseri umani squarciati, sgozzati, grondanti sangue anche nello spirito. Le
membra amputate ai soldati in guerra, se fossero messe l’una vicina all’altra,
riempirebbero un treno che sarebbe lungo 2500 chilometri. Queste riflessioni
sono esposte nell’ultimo racconto, nel quale un chirurgo di guerra non può fare
altro che ad amputare arti feriti o a constatare il decesso dei soldati.
“Qual è l’esito di tanta
barbara follia? Leonhard Frank adombra il sorgere spontaneo di una protesta
che si ingrossa sempre più, in uno sterminato corteo, per l’adesione di
tutte le vittime della guerra. L’uomo è buono, ma proprio questa sua
bontà e la quantità mostruosa del dolore provocheranno la rivoluzione”
(cfr. G. Dolei, Leonhard Frank, La
galleria del dolore di un pacifista, Alias, “il manifesto”, 26-10-2014).
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