sabato 8 novembre 2014

Leonhard Frank. L'UOMO È BUONO




Il sangue umano colato sulla segatura ancora parla al sangue pulsante. Perché tutto il sangue umano è divinamente legato. E per questo l’assassinio che gli uomini di legge commetteranno giustiziandomi sarà mille volte vendicato. E porterà ad altri mille assassinii. Lo sa? La testa umana staccata è una testa tremendamente potente e pericolosa” (p. 113). All'epilogo della sua vicenda, il poeta Anton Seiler, prossimo a essere giustiziato perché ha ucciso il suo maestro d’un tempo, lancia questa osservazione contro l'inutilità della pena di morte. Essa condensa in sé il pensiero dello scrittore tedesco Leonhard Frank (1882-1961), di cui l'editore Delvecchio, nella traduzione di Paola Del Zoppo, ha appena pubblicato un elegante volume intitolato L’uomo è buono, che comprende un racconto lungo, Il male originario (Die Ursache) e una serie di novelle pacifiste, riunite sotto il titolo de L'uomo è buono (Der Mensch ist gut).
Il male originario, pubblicato nel 1915, è una denuncia di un sistema penale ingiusto, attraverso il quale le classi privilegiate manifestano il proprio potere grazie a una modalità di giudizio del reo che privilegia l'aspetto “economico” della pena, intesa come risarcimento chiesto al colpevole per il suo atto che è andato a danno dell'ordine sociale. Tale ingiustizia è l'espressione di un sistema di potere che stabilisce la distanza tra bene e male secondo i parametri e i valori delle classi dominanti; questo sistema giudiziario è perciò incapace di impedire che il crimine si compia perché, come dice il poeta durante il processo: “La brutalità non porta mai al suo contrario, ma sempre alla brutalità, e quindi non funziona da deterrente. ‘Porterà ad altri mille assassinii, ha detto. E mille giudici ingiusti … giudici ingiusti”.
Il protagonista è un uomo in difficoltà, un emarginato, verso il quale la società prova un istintivo sospetto; quando egli compie un delitto, uccidendo il suo vecchio maestro, Mager, colpevole, vent’anni prima, di aver perpetrato dei soprusi contro di lui, egli diventa il bubbone da eliminare per sanare la società. Ben prima di compiere il delitto, egli era già un colpevole, in quanto era una persona senza lavoro, in ritardo nel pagare l'affitto. Naturalmente il fatto di essere un artista non migliora la sua reputazione; dopo il delitto, la società lo ha definitivamente bollato: egli è un criminale perché povero, dunque questa sua povertà è una colpa, perché l'ha condotto a uccidere il maestro per rubare cento marchi.
Il poeta cerca di spiegare che egli non intendeva uccidere il vecchio maestro, e che era andato a trovarlo dopo vent'anni solo per avere una spiegazione. Poi, una volta incontratolo, aveva visto il maestro mettersi a maltrattare un ragazzino, suo allievo, proprio come faceva con il poeta vent'anni prima. Il trauma infantile si era dunque riacceso, tornando a premere sull'animo del poeta, rinvigorendo il suo mai sopito risentimento. «Mager avrebbe dovuto rico­no­scere il suo errore e chie­der­gli scusa. Gli avrebbe dato la forza di puri­fi­carsi, per una vita nuova, più valida».
Queste spiegazioni non interessano alla corte: essa non ammette moventi psicologici alla base di un'azione criminosa: per questo il poeta sembra quasi rassegnato alla propria sorte e a non essere creduto mai. Tuttavia egli intende risalire la catena delle cause del male, per giungere al male originario, primitivo, assimilabile a quel “cancro morale” che rode l’Europa di quegli anni. Il colpevole del male è l’intero genere umano, e la società che consente che pochi uomini vivano da benestanti, senza mai essere offesi dalla povertà, dal bisogno, dall’esigenza di sopravvivere. Per costoro è facile non commettere delitti. Ma più in basso l’imbuto si restringe e “milioni di per­sone ven­gono costrette a sop­por­tare la povertà, a istu­pi­dirsi nella mise­ria e affondare". Per questi ultimi il delitto è quasi inevitabile, non perché siano malvagi di natura, ma perché costretti a vivere perennemente nel bisogno. Per il poeta nella colpa di un individuo si condensa il male dell’intera società. Per questo egli invita i giurati a guardare più a fondo nel male, a non fermarsi alla superficie del suo delitto. Nondimeno, la corte non può accettare questa spiegazione, perché crollerebbe l’impianto giuridico su cui è fondata l’ingiusta società moderna.
La sensazione che si ha leggendo le pagine di Frank è quella di assistere a una messa in scena, il processo, nella quale tutti i protagonisti sono, per qualche ragione, delle vittime; se è palese che la vittima principale è il poeta, è chiaro che pure i giurati, essendo incapaci di ragionare al di fuori degli schemi della morale borghese dominante, sono a loro modo delle vittime. Anche il giudice, rappresentante di quella legge ingiusta, è vittima, perché agisce come se fosse diretto da qualcos’altro, qualcosa che lo trascende, in cui egli non ha fede, ma è tenuto a credere per senso del dovere.
La parte finale del racconto descrive l’esecuzione del poeta in toni raffigurativi forti, di chiara matrice espressionistica, come se fosse una sceneggiatura per un film (in effetti Frank collaborò a diverse sceneggiature). Non vi è realismo nella descrizione della decapitazione di Seiler, né alcun indulgere su aspetti truculenti, né alcuna forma di pietismo; al contrario, la descrizione vivida della ferocia dell’esecuzione, del sangue che esce dal tronco separato dalla testa, si trova lo stesso spirito di denuncia che ha animato l’intero racconto, denuncia della barbarie umana.
La tematica trattata da Frank è spinosa ancor oggi, figuriamoci quanto lo fosse più di cento anni fa nella Germania guglielmina; l’autore, grazie alla sua conoscenza della psicanalisi (allora giovane scienza), intende indagare i meccanismi del potere, che trovano nel sistema giudiziario una formidabile valvola di sfogo. Il fatto che l’origine del male sia imputabile ai maltrattamenti provati nell’infanzia, era allora un’idea moderna e rivoluzionaria. Il maestro Mager che umilia il bambino Anton Seiler è il simbolo di una società repressiva e ottusa, incapace di essere umana e comprensiva. Frank non crede alla colpa come concetto individuale, poiché essa è intrecciata al vissuto psichico della persona che è influenzato dall’ordine sociale, e possiede dunque un carattere collettivo.
La raccolta di novelle L’uomo è buono esprime le idee umanitarie di Frank, unendole a una concezione pacifista che attacca il vano massacro di uomini dovuto alla Prima Guerra Mondiale. Secondo Frank il conflitto mondiale è l’espressione più chiara dell’ingiustizia sociale: i personaggi delle novelle sono soprattutto quelli che sono rimasti a casa (genitori, mogli, fidanzate); essi, uno dopo l’altro, vengono a sapere che il loro figlio o marito è perito in guerra “sul campo dell’onore”. Questa è la frase ipocrita con cui il comando tedesco annuncia ai parenti la scomparsa del loro congiunto; ma l’appello al patriottismo, per Frank, è solo un modo per avere altra carne da cannone da mandare a morire nelle trincee. Il dolore per la scomparsa del marito non è lenito, nella protagonista della novella La vedova di guerra, dalla consapevolezza di essere accomunata a tante altre donne nella tragedia. Perché la questione non è solo legata al dolore immenso per la perdita del proprio marito, ma all’inutilità di una strage in cui milioni di uomini si massacrano a vicenda senza comprenderne il motivo. «L’Europa intera è folle, per­ché non sa più amare. Non è una fol­lia gioire alla noti­zia: Due­mila cada­veri fran­cesi giac­ciono sul nostro fronte?». Fran­cese o tede­sco, un caduto è un essere umano che «voleva tanto vivere ed è morto. Per che cosa? Per­ché?».
La guerra è il frutto della politica borghese, di una società ingiusta, in cui il gruppo dominante ha interesse a seminare l’odio e la divisione tra gli esseri umani per controllarli meglio; in realtà, se gli uomini ammettessero di essere tutti fratelli, ben prima di essere francesi, tedeschi o italiani, tante atrocità si eviterebbero. Ma questa fratellanza universale nuocerebbe agli interessi economici e politici. I soldati, una volta morti, non hanno più patria: sono esseri umani squarciati, sgozzati, grondanti sangue anche nello spirito. Le membra amputate ai soldati in guerra, se fossero messe l’una vicina all’altra, riempirebbero un treno che sarebbe lungo 2500 chilometri. Queste riflessioni sono esposte nell’ultimo racconto, nel quale un chirurgo di guerra non può fare altro che ad amputare arti feriti o a constatare il decesso dei soldati.
“Qual è l’esito di tanta bar­bara fol­lia? Leo­n­hard Frank adom­bra il sor­gere spon­ta­neo di una pro­te­sta che si ingrossa sem­pre più, in uno ster­mi­nato cor­teo, per l’adesione di tutte le vit­time della guerra. L’uomo è buono, ma pro­prio que­sta sua bontà e la quan­tità mostruosa del dolore pro­vo­che­ranno la rivoluzione” (cfr. G. Dolei, Leonhard Frank, La galleria del dolore di un pacifista, Alias, “il manifesto”, 26-10-2014).

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