domenica 15 marzo 2015

JEAN ECHENOZ, ’14, Adelphi 2014




La Prima guerra mondiale fu un evento che ebbe cause storiche e politiche, nonché uno svolgimento analizzato, oltre che dagli storici, dai militari. Ma, come spesso accade, sono gli scrittori, gli artisti, coloro i quali hanno saputo raccontare meglio di altri le vicende di quell’inferno durato quattro anni e tre mesi. Tra i tanti scritti contemporanei, mi piace parlare del racconto pubblicato nel 2012 dallo scrittore francese Jean Echenoz, tradotto quest’anno da Adelphi in italiano e intitolato, semplicemente, ’14.  L’autore parla di quella guerra lontana in modo delicato, sensibile, raccontando la vicenda immaginaria di due fratelli chiamati al fronte nell’agosto 1914.
Quello che colpisce del suo racconto è la leggerezza e la concisione della narrazione dei fatti. Il protagonista è una persona mite e tranquilla, Anthime. Gran parte della vicenda è filtrata attraverso i suoi occhi quieti e ingenui: egli, come molti altri, si trova catapultato in pochi giorni dal tranquillo paesino della Vandea in cui vive al fronte, in mezzo alla mischia del combattimento, senza sapere bene perché. In lui non c’è una vera e propria coscienza di quel che sta accadendo, né odio verso un nemico, i tedeschi, di cui egli conosco molto poco. L’inizio del romanzo ha dei toni lirici, quasi idilliaci, che presto però si colorano di cupezza. L’imminente tragedia viene anticipata da un simbolo come una folata di vento inusuale e subitanea: “Era il primo giorno di agosto e Anthime ha lasciato vagare lo sguardo sul panorama: dalla collina su cui si trova da solo, ha visto sgranarsi cinque o sei borghi, conglomerati di case basse ammassate sotto una torre campanaria, collegati da un’esile rete stradale sulla quale circolavano, più che rare automobili, carri da buoi e cavalli aggiogati … Era un paesaggio senz’altro ameno, ancorché temporaneamente turbato da quell’irruzione ventosa, fragorosa, spaventosa, davvero insolita per la stagione”.
Quasi nessuno tra i soldati sembra consapevole dell’inferno cui andrà incontro. La mobilitazione, la parata delle truppe in città, lo schieramento in caserma, la partenza con i treni, gli addii ai propri cari (Anthime, come suo fratello Charles, è innamorato di una ragazza, Blanche, che però ama solo Charles), sono eventi vissuti con quieta rassegnazione, se non con entusiasmo, anche perché, come ripete Charles, la guerra durerà al massimo quindici giorni. Questa convinzione era condivisa, purtroppo, da molti capi di governo dei paesi belligeranti, i quali sottovalutarono la portata del conflitto, credendo che si sarebbe trattato di un conflitto breve, come erano state le ultime guerre combattute in Europa nel 1870-1871.
Ben presto Anthime e i suoi amici incontrano la crudeltà della guerra: assalti fuori dalle trincee, disorientamento di fronte al fuoco nemico, incapacità di comprendere le strategie di guerra. L’autore però non racconta le grandi battaglie, né indugia a lungo sui movimenti delle truppe: egli narra della quotidianità della guerra, del suo volto tragico che si manifesta non solo nei numerosi morti e feriti, ma anche delle infinite scomodità quotidiane. D’altra parte, presto la guerra diviene guerra di trincea: nessuno sostiene più che durerà due settimane. Essa diviene cruda, tremenda, e i particolari macabri sono narrati senza sadismo, anzi, quasi con tragica comicità: “Ti aggrappi al fucile, al coltello il cui metallo ossidato, reso opaco, scurito dai gas brilla appena sotto il chiarore gelido dei razzi illuminanti, nell’aria impestata dai cavalli decomposti, dalla putrefazione degli uomini uccisi, poi, passando a quelli che ancora si reggono a stento nel fango, dall’odore di piscio e di merda e di sudore, di lerciume e di vomito, per non parlare del dilagante effluvio di rancido, di muffa, di vecchio, mentre in fondo sei all’aria aperta, al fronte. Invece no: l’odore di stantio te lo senti addosso e dentro, all’interno di te, dietro i reticolati di filo spinato dove sono uncinati cadaveri marcescenti e disarticolati che talora i genieri usano per fissare i fili del telefono”.
La guerra colpisce a caso, ciecamente: chi sopravvive, come Anthime, ha solo fortuna; chi muore non ha colpe, si trova solo nel momento sbagliato al posto sbagliato. Charles per esempio muore in aereo. Era stato trasferito in aeronautica per interessamento di Blanche, che, tramite il proprio medico curante, aveva fatto muovere le giuste pedine. Ella credeva che in aeronautica Charles sarebbe stato al sicuro, e invece muore subito. Blanche, che è incinta di lui, partorirà una bimba già orfana. Anthime invece è più fortunato: viene ferito a un braccio (“nell’infermeria … tutti si sono congratulati con Athime. Gli hanno spiegato quanto gli invidiavano quella ferita provvidenziale, una delle migliori che si possano immaginare – grave d’accordo …. Ambitissima perché di quelle che ti garantiscono di essere allontanato per sempre dal fronte”) e per lui la guerra finirà, essendo divenuto un mutilato inabile al combattimento.
L’autore racconta queste vicende con il tocco leggero della sua scrittura: la drammaticità degli avvenimenti non traspare dai sentimenti e dalle emozioni dei personaggi, i quali spesso sembrano rassegnati a subire i fatti, senza lasciarsi andare a scene di pianto, senza far scorrere le lacrime. Anzi, essi conservano sempre, in superficie, un’invidiabile tranquillità, che non è figlia dell’incoscienza, bensì di un’atavica rassegnazione a subire i raggiri di un destino di cui essi non sono in grado di controllare nulla. Gli eventi drammatici della prima guerra mondiale sono perciò il corollario di una serie di fatti di vita quotidiana che avvengono a prescindere dai percorsi della storia, dai grandi avvenimenti, da quelli che rimangono sui libri di storia. Forse per questo Anthime, ritrovando l’amico Padioleau, anch’egli tornato a casa perché invalido (ha perduto la vista) a volte quasi rimpiange la vita di trincea, durante la quale era tutto intero e, in alcuni casi, si era sentito vivo, quasi divertendosi, ingegnandosi per inventare accorgimenti per sopportare meglio quelle privazioni: “nonostante tutto aveva passato dei bei momenti. Anche se spidocchiarsi era meno divertente, era comunque uno svago, tra un allarme e l’altro, braccare il pidocchio per scrollarlo dalla pelle, dalle pieghe degli abiti e dalla biancheria”.
Ora invece, tornato alla vita borghese, privo del braccio del destro, la sua esistenza scorre lenta; il braccio che non ha più gli manca molto: benché si sia abituato a farne senza, possiede la vivida sensazione di averlo ancora, quel braccio, comportandosi spesso come se lo possedesse. Ma anche questa sfortuna viene sopportata con serafica tranquillità, perché la tragedia più grande è passata, e ora è necessario impegnarsi per affrontare la “tragedia” più piccola, l’esistenza quotidiana, che dura più di qualunque guerra mondiale. La conclusione di questo bel racconto lungo è fulminea e gravida di futuro: “[Anthime] si è alzato, ha attraversato il corridoio, aperto la porta di fronte, si è diretto nell’oscurità verso il letto di Blanche, anche lei sveglia. Si è sdraiato accanto a lei e l’ha circondata col suo unico braccio, poi l’ha penetrata prima di inseminarla. E l’autunno seguente, proprio mentre si svolgeva la battaglia di Mons che è stata l’ultima, è nato un maschietto cui è stato dato il nome di Charles”.

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