La
Prima
guerra mondiale fu un evento che ebbe cause storiche e politiche,
nonché uno svolgimento analizzato, oltre che dagli storici, dai militari. Ma,
come spesso accade, sono gli scrittori, gli artisti, coloro i quali hanno
saputo raccontare meglio di altri le vicende di quell’inferno durato quattro
anni e tre mesi. Tra i tanti scritti contemporanei, mi piace parlare del
racconto pubblicato nel 2012 dallo scrittore francese Jean Echenoz, tradotto
quest’anno da Adelphi in italiano e intitolato, semplicemente, ’14. L’autore parla di quella guerra lontana in
modo delicato, sensibile, raccontando la vicenda immaginaria di due fratelli
chiamati al fronte nell’agosto 1914.
Quello
che colpisce del suo racconto è la leggerezza e la concisione della narrazione
dei fatti. Il protagonista è una persona mite e tranquilla, Anthime. Gran parte
della vicenda è filtrata attraverso i suoi occhi quieti e ingenui: egli, come
molti altri, si trova catapultato in pochi giorni dal tranquillo paesino della
Vandea in cui vive al fronte, in mezzo alla mischia del combattimento, senza
sapere bene perché. In lui non c’è una vera e propria coscienza di quel che sta
accadendo, né odio verso un nemico, i tedeschi, di cui egli conosco molto poco.
L’inizio del romanzo ha dei toni lirici, quasi idilliaci, che presto però si
colorano di cupezza. L’imminente tragedia viene anticipata da un simbolo come
una folata di vento inusuale e subitanea: “Era
il primo giorno di agosto e Anthime ha lasciato vagare lo sguardo sul panorama:
dalla collina su cui si trova da solo, ha visto sgranarsi cinque o sei borghi,
conglomerati di case basse ammassate sotto una torre campanaria, collegati da
un’esile rete stradale sulla quale circolavano, più che rare automobili, carri
da buoi e cavalli aggiogati … Era un paesaggio senz’altro ameno, ancorché
temporaneamente turbato da quell’irruzione ventosa, fragorosa, spaventosa,
davvero insolita per la stagione”.
Quasi
nessuno tra i soldati sembra consapevole dell’inferno cui andrà incontro. La
mobilitazione, la parata delle truppe in città, lo schieramento in caserma, la
partenza con i treni, gli addii ai propri cari (Anthime, come suo fratello
Charles, è innamorato di una ragazza, Blanche, che però ama solo Charles), sono
eventi vissuti con quieta rassegnazione, se non con entusiasmo, anche perché,
come ripete Charles, la guerra durerà al massimo quindici giorni. Questa convinzione
era condivisa, purtroppo, da molti capi di governo dei paesi belligeranti, i
quali sottovalutarono la portata del conflitto, credendo che si sarebbe
trattato di un conflitto breve, come erano state le ultime guerre
combattute in Europa nel 1870-1871.
Ben
presto Anthime e i suoi amici incontrano la crudeltà della guerra: assalti
fuori dalle trincee, disorientamento di fronte al fuoco nemico, incapacità di
comprendere le strategie di guerra. L’autore però non racconta le grandi
battaglie, né indugia a lungo sui movimenti delle truppe: egli narra della
quotidianità della guerra, del suo volto tragico che si manifesta non solo nei
numerosi morti e feriti, ma anche delle infinite scomodità quotidiane. D’altra
parte, presto la guerra diviene guerra di trincea: nessuno sostiene più che
durerà due settimane. Essa diviene cruda, tremenda, e i particolari macabri
sono narrati senza sadismo, anzi, quasi con tragica comicità: “Ti aggrappi al fucile, al coltello il cui
metallo ossidato, reso opaco, scurito dai gas brilla appena sotto il chiarore
gelido dei razzi illuminanti, nell’aria impestata dai cavalli decomposti, dalla
putrefazione degli uomini uccisi, poi, passando a quelli che ancora si reggono
a stento nel fango, dall’odore di piscio e di merda e di sudore, di lerciume e
di vomito, per non parlare del dilagante effluvio di rancido, di muffa, di
vecchio, mentre in fondo sei all’aria aperta, al fronte. Invece no: l’odore di
stantio te lo senti addosso e dentro, all’interno di te, dietro i reticolati di
filo spinato dove sono uncinati cadaveri marcescenti e disarticolati che talora
i genieri usano per fissare i fili del telefono”.
La
guerra colpisce a caso, ciecamente: chi sopravvive, come Anthime, ha solo
fortuna; chi muore non ha colpe, si trova solo nel momento sbagliato al posto
sbagliato. Charles per esempio muore in aereo. Era stato trasferito in
aeronautica per interessamento di Blanche, che, tramite il proprio medico
curante, aveva fatto muovere le giuste pedine. Ella credeva che in aeronautica
Charles sarebbe stato al sicuro, e invece muore subito. Blanche, che è incinta
di lui, partorirà una bimba già orfana. Anthime invece è più fortunato: viene
ferito a un braccio (“nell’infermeria …
tutti si sono congratulati con Athime. Gli hanno spiegato quanto gli
invidiavano quella ferita provvidenziale, una delle migliori che si possano
immaginare – grave d’accordo …. Ambitissima perché di quelle che ti
garantiscono di essere allontanato per sempre dal fronte”) e per lui la
guerra finirà, essendo divenuto un mutilato inabile al combattimento.
L’autore
racconta queste vicende con il tocco leggero della sua scrittura: la
drammaticità degli avvenimenti non traspare dai sentimenti e dalle emozioni dei
personaggi, i quali spesso sembrano rassegnati a subire i fatti, senza
lasciarsi andare a scene di pianto, senza far scorrere le lacrime. Anzi, essi
conservano sempre, in superficie, un’invidiabile tranquillità, che non è figlia
dell’incoscienza, bensì di un’atavica rassegnazione a subire i raggiri di un
destino di cui essi non sono in grado di controllare nulla. Gli eventi
drammatici della prima guerra mondiale sono perciò il corollario di una serie
di fatti di vita quotidiana che avvengono a prescindere dai percorsi della
storia, dai grandi avvenimenti, da quelli che rimangono sui libri di storia.
Forse per questo Anthime, ritrovando l’amico Padioleau, anch’egli tornato a
casa perché invalido (ha perduto la vista) a volte quasi rimpiange la vita di
trincea, durante la quale era tutto intero e, in alcuni casi, si era sentito
vivo, quasi divertendosi, ingegnandosi per inventare accorgimenti per
sopportare meglio quelle privazioni: “nonostante
tutto aveva passato dei bei momenti. Anche se spidocchiarsi era meno divertente,
era comunque uno svago, tra un allarme e l’altro, braccare il pidocchio per
scrollarlo dalla pelle, dalle pieghe degli abiti e dalla biancheria”.
Ora invece, tornato alla
vita borghese, privo del braccio del destro, la sua esistenza scorre lenta; il
braccio che non ha più gli manca molto: benché si sia abituato a farne senza,
possiede la vivida sensazione di averlo ancora, quel braccio, comportandosi
spesso come se lo possedesse. Ma anche questa sfortuna viene sopportata con
serafica tranquillità, perché la tragedia più grande è passata, e ora è
necessario impegnarsi per affrontare la “tragedia” più piccola, l’esistenza
quotidiana, che dura più di qualunque guerra mondiale. La conclusione di questo
bel racconto lungo è fulminea e gravida di futuro: “[Anthime] si è alzato, ha attraversato il corridoio, aperto la porta
di fronte, si è diretto nell’oscurità verso il letto di Blanche, anche lei
sveglia. Si è sdraiato accanto a lei e l’ha circondata col suo unico braccio,
poi l’ha penetrata prima di inseminarla. E l’autunno seguente, proprio mentre
si svolgeva la battaglia di Mons che è stata l’ultima, è nato un maschietto cui
è stato dato il nome di Charles”.
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