Nel suo scritto Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero, George
Steiner si domanda qual è il significato del nostro pensiero. Il “pretesto” per
questa riflessione è una frase del filosofo tedesco F. W. J. Schelling,
che Steiner riporta in questi termini: “Questa è la tristezza connessa ad ogni
vita finita … essa però non arriva mai a realizzarsi, e serve soltanto
all’eterna gioia del trionfo. Donde il velo di tristezza, che si stende su
tutta la natura, la profonda, insopprimibile malinconia di ogni vita. Solo
nella personalità è la vita: e ogni personalità riposa su un fondamento oscuro,
che deve quindi essere anche il fondamento della conoscenza” (Ricerche filosofiche sull’essenza della
libertà umana, 1809).
Perché, si chiede l’autore, Schelling
giunge a questa conclusione? Come mai afferma che vi sia, connessa alla nostra
vita, un’insopprimibile malinconia?
Schelling non è l’unico autore che ha
legato l’idea di tristezza alla nostra esistenza. Tuttavia Steiner nota che il
“fondamento oscuro” su cui, secondo il filosofo, riposerebbe ogni personalità,
è proprio ciò che le consente di essere persona,
ovvero di sentire e percepire dunque, in sostanza, di pensare. Ecco perché
Steiner si dedica ad analizzare il significato di questa tristezza e del suo
legame con il pensiero. Egli indica dieci motivi che stanno alla base di questa
malinconia insopprimibile. Eccoli:
1) Ogni atto del pensiero è
destinato a dubbio e frustrazione, perché è comunque limitato, benché
potenzialmente sia infinito.
L’atto
del pensiero è ciò che qualifica l’essere umano, che costituisce la sua
autentica dignità. L’uomo può pensare qualsiasi cosa: “Per quanto siamo
coscienti, per quanto possiamo ‘pensare il pensare’ … il pensiero è illimitato.
Possiamo pensare tutto e su tutto”. Il pensiero è un atto ininterrotto,
più continuo della respirazione: infatti, se possiamo trattenere il fiato per
alcuni secondo, non possiamo mai “trattenere” il pensiero. Eppure quanto incessante
attività mentale appare sovente inconcludente e vana: “Su fronti assolutamente
decisivi non arriviamo ad alcuna risposta soddisfacente, e meno che mai
conclusiva, per quanto ispirato o conseguente possa essere il processo del
pensiero, individuale o collettivo, scientifico o filosofico”, conclude infatti
Steiner.
2)
Il pensiero ordinario è un’impresa pasticciata,
dilettantesca.
Il
pensiero è incontrollato perché non ci abbandona mai, nemmeno durante il sonno
e forse nemmeno nei momenti di deliquio. Esso, tuttavia, non è mai lineare, né
razionale. Una congerie di fatti, di pensieri su pensieri, di immagini si accumula
nella nostra mente, creando una dissonanza terribile; inoltre un’infinità di
cause esterne (un rumore, un’immagine visiva, un raggio di sole ecc.), può
disturbare il pensiero, fargli cambiare rotta all’improvviso, tanto da renderlo
incontrollabile e non lineare. Ci vuole una concentrazione sovraumana per
allontanarsi da queste elementi di disturbo: forse solo gli artisti sublimi, a
prezzo di grandi sforzi, possono farlo, solo per breve tempo.
3) Pensare è sommamente
nostro; sepolto nella privatezza più intima del nostro essere. È anche il più
comune, usurato, ripetitivo degli atti.
I
nostri pensieri sono in apparenza non conoscibili per l’altro; nemmeno nei
rapporti più intimi i pensieri si svelano realmente. Dunque il nostro pensiero
appare possedere un’inarrivabile unicità. Eppure… miliardi di esseri umani
pensano e, per la maggior parte delle volte, non creano pensieri mai pensati prima.
Difficilmente, infatti, esistono pensieri veramente “originali”; ciò che esiste
sono variazione su temi da tempo discussi e trattati da secoli e secoli.
4)
Il quarto motivo della tristezza del pensiero è l’antinomia
“tra le pretese del linguaggio di essere autonomo, di essere libero dal
dispotismo della referenza e della ragione - … - da un lato, e la ricerca
disinteressata della verità dall’altro”.
Il
pensiero è volto alla ricerca di verità assodate, auto-evidenti, ma presto s’accorge
che per lui questo “regno” è inaccessibile. Non esiste la prova definitiva
nemmeno nelle scienze, figuriamoci in filosofia. Il pensiero incontra poi il
linguaggio che pone una strenua resistenza, perché il pensiero è fatto di
ambiguità, fantasticherie, atti creativi tentati o esauriti, spesso del tutto
illogici. “Un pensiero limitato a proposizioni logiche, che si esprimerebbero
al meglio non verbalmente, o a fattualità dimostrabili, sarebbe la follia”.
5)
Pensare è faticoso, richiede uno sforzo fisico, perché
un’attività incessante, continua. Al contempo, il pensare è un’attività
grandemente dispersiva: pensiamo mille cose in una giornata, spesso senza
alcuna connessione l’una con l’altra, saltiamo da un pensiero all’altro in modo
rapsodico.
Il
pensare è un’attività continua, ma anche dispersiva; delle migliaia di
riflessioni che elaboriamo ogni giorno, quante sono realmente decisive? Quante
di esse lasciano tracce, quante possiedono una logica, un senso chiaro,
quantomeno a noi?
6)
Ogni giorno scontiamo l’enorme distanza tra desideri,
aspettative e realizzazioni; una sesta fonte di tristezza è questa “speranza
contro ogni speranza”, dello scacco eterno tra i pensieri e le loro
realizzazioni.
Trovare
il legame vero tra un’azione e il pensiero che l’ha originata è impossibile.
Possiamo solo fare delle congetture parziali; sarebbe come chiedere a un
artista di spiegare con esattezza scientifica perché abbia dipinto un certo
quadro e non un altro. Al contempo, desideri, aspettative, ambizioni nascono e
muoiono nella nostra testa, senza essere mai soddisfatte né potere, a volte,
superare la barriera del linguaggio.
7)
Il pensiero sbatte continuamente contro le barriere del
linguaggio. Quanto più il pensiero rivela, tanto più esso nasconde.
Finché
siamo in vita, non possiamo smettere di respirare e pensare. I filosofi
realisti hanno affermato che noi vediamo la realtà come attraverso una
finestra, sostenendo perciò l’esistenza di un “là fuori” oggettivo, che si
trasmette a noi direttamente. Altri, hanno affermato che noi vediamo come
attraverso uno specchio, perché la realtà in sé è inaccessibile. Resta il fatto
che il “vetro” (specchio o finestra) non è mai immacolato; il nostro percepire
non è mai oggettivo, libero di interferenze psicologiche, culturali,
dogmatiche. Nonostante i progressi nelle nostre conoscenze, sappiamo che
esistono immensi ambiti che rimangono ignoti; non sappiamo se il nostro
intelletto speculativo potrà continuare a conoscere ancora in modo illimitato;
non sappiamo, infime, tantissime cose: a ogni nuova conoscenza si
contrappongono altre ombre di ignoranza, in modo tale da lasciarci disperati e
impotenti.
8)
“Il pensiero ci rende estranei l’uno all’altro. L’amore più
intenso, forse più debole dell’odio, è una negoziazione, mai conclusiva, tra
due solitudini”.
Anche
il sentimento d’amore più intenso non crea una simbiosi, una comunione totale.
Esiste sempre una mediazione, un passaggio, una membrana o una possibile
dissimulazione. Forse solo l’odio, o il riso scatenato, consente di rendere
“leggibili” i pensieri dell’altro. Steiner nota infatti che “queste dinamiche
[l’odio o la paura], particolarmente nell’istante in cui accadono, sono
difficili da falsare”.
9)
L’inadattabilità del grande pensiero e della creatività agli
ideali di giustizia sociale, è una nuova fonte di melanconia.
C’è
un gran spreco di pensieri. Grandi intuizioni possono essere state pensate da
analfabeti, ma non sono stati comunicate a nessuno, e si sono disperse nel
nulla, irrecuperabili. Solo una ristretta minoranza di uomini (i geni) sa elaborare
pensieri che valga la pena pensare; pochi sanno risolvere un compito difficile,
oppure creano idee effettivamente creative. Ma nella nostra società, che tende
all’egualitarismo, siamo ancora alla preistoria del pensiero. Se è possibile
insegnare alcune tecniche di meditazione o a pensare in modo logico e formale,
non esiste una pedagogia che favorisca la creatività. Il genio è isolato,
guardato con sospetto, vilipeso: “Non c’è democrazia per il genio, solo una
terribile ingiustizia e un fardello che può essere mortale. Ci sono quei pochi,
diceva Holderlin, che sono costretti ad afferrare il fulmine a mani nude”.
10)“La padronanza del
pensiero, della velocità perturbante del pensiero esalta l’uomo al di sopra di
tutti gli altri esseri viventi. Ma lo lascia straniero a se stesso e
all’enormità del mondo”.
Ecco
l’ultima ragione, che Steiner collega a ciò che recita l’ode corale sull’uomo
dell’Antigone di Sofocle (332-383).
Benché l’uomo possa pensare potenzialmente ogni cosa e benché, da millenni,
egli abbia cercato di rendere ragione di molte cose che vanno al di là di lui
stesso (l’esistenza di Dio, la morte, il senso della nostra vita), si ha
l’impressione che non abbia compiuto passi in avanti. E in questo senso la
filosofia e la teologia non sono state d’aiuto. Solo le scienze pratiche sembra
abbiano fatto dei progressi. Ecco perché la capacità di pensare e di pensarsi,
di auto-percepirsi, lungi dall’essere una virtù che eleva l’uomo, è una pena;
essa, infatti, lo spinge a porsi le domande più ardite, gli interrogativi più
elevati, condannandolo però a rimanere senza risposta, roso da una inestinguibile
sete di sapere e consapevole di non poterla soddisfare.
Nessun commento:
Posta un commento