Chi ha giocato a Risiko la conosce. Gli altri quasi certamente no,
anche se sono esperti di geografia: “Kamchatka”. È una penisola dell’Estremo
Oriente russo, un luogo remoto. Ma è anche una regione del gioco del Risiko, un
territorio da conquistare o da difendere, a seconda dello svolgimento del
gioco. Per Harry (è un nome di fantasia), il piccolo protagonista del romanzo
di Marcelo Figueras si tratta, soprattutto, dell’ultima parola che gli disse
suo padre prima di scomparire, prima di diventare un desaparecido. Questo saluto non viene descritto nel libro come un
momento solenne né retorico, anche perché nessuno sa che sarà l’ultimo; certo,
tutti temono che possa esserlo, quantomeno gli adulti.
È l’ottobre 1976: da sette mesi l’Argentina è in mano alla feroce
dittatura militare del generale Jorge Rafael Videla (1925-2013) e il papà di
Harry, un avvocato di sinistra, da mesi è ricercato e vive in clandestinità con
la famiglia. La fuga però è agli sgoccioli, la polizia ha individuato il loro
nascondiglio. Allora papà e mamma decidono di affidare i figli al nonno
paterno. Ma il bambino queste cose le intuisce appena: “In quel momento ho
dieci anni. Sono un ragazzino dall’aspetto normale, a eccezione, forse, dei
capelli ribelli che tendono a starmi dritti sulla testa come tanti punti
esclamativi”.
Il papà saluta il figlio con trasporto, l’affida al nonno per
proteggerlo sperando di poterlo rivedere. Non accadrà. Il momento dell’addio è dolce,
struggente per chi sa come andrà a finire la vicenda, ma nel ricordo letterario
si tinge di un colore tenue, in fondo privo di dramma: “Papà era andato alla
macchina a prendere il Risiko, me lo porta, me lo mette in mano con un sorriso
… Poi mi bacia e mi dice ti voglio tanto bene, di nuovo con un tono un po’ da
Narciso, papà si irrigidisce sempre quando deve dire qualcosa di importante.
Quindi mi graffia con la barba che non si rade da giorni e mi parla
all’orecchio, mi dice varie cose ma quella che ricordo è Kamchatka, perché
Kamchatka è l’ultima parola che ha detto ma anche perché Kamchatka riassume
tutto, le ultime parole sono importanti” (pp. 361-362).
Figueras scrive una storia molto bella perché parla di una tragedia
nazionale con gli occhi di un bambino; e si capisce bene che l’adozione di
questa prospettiva non è un espediente retorico, bensì nasce dalla sua volontà
di tornare a ragionare proprio come un bambino di dieci anni, benché scriva da
adulto e abbia avuto il tempo di elaborare i ricordi nefasti, dando loro un’interpretazione
razionale, politica, storica. Tuttavia l’evento è stato così traumatico da aver
in qualche modo fermato il tempo a quell’assolato giorno di ottobre del 1976
quando, in una stazione di servizio, il bimbo saluta il suo papà per sempre. D’altra
parte, sebbene il bambino abbia dieci anni e non sappia quasi nulla della
dittatura militare, intuisce ugualmente qualcosa, capta delle frasi nei
discorsi sussurrati degli adulti. I bambini spesso conoscono il dolore ma non
sanno dargli forma verbale.
Forse adottare il punto di vista, in apparenza ingenuo, di un bambino,
è servito per dare senso a una realtà sconvolgente, incomprensibile per la
ragione; l’immaginazione del fanciullo diviene al tempo stesso una maschera
protettiva e un modo per guardare in faccia il male. Essa è una maschera
protettiva poiché, almeno in apparenza, salva dal dolore, rinviandone all’età
matura l’esplosione. E si tratterà di un’esplosione contenuta perché il tempo trascorso
stempera in parte anche i dolori più atroci, è inevitabile. Tuttavia
l’immaginazione diventa anche l’unico modo per guardare negli occhi questa
tragedia a posteriori, e poterne
parlare senza soffocare per la rabbia e la sofferenza. “Narrare la storia della
clandestinità … ci permetteva di staccarci dal racconto dell’orrore, perché il
bambino subiva una perdita, sì … ma al tempo stesso aveva l’occasione di vivere
un’avventura. Con la benedizione dei genitori, cambiava nome e storia ed
esplorava il vasto mondo sconosciuto”.
Per questo anni dopo, rievocando gli avvenimenti, l’autore si accorge
che adottare un punto di vista “infantile” è l’unica maniera per evitare di
cadere nella retorica parlando dei desaparecidos.
Anche perché in Argentina la ferita è ancora aperta (il romanzo esce nel 2003,
ma nasce e si sviluppa a partire da una precedente sceneggiatura per un film di
successo), e si tratta di un argomento, come dire, scottante. Gli occhi di un
bambino, ferito e reso orfano così presto, sono un atto d’accusa chiaro e
potente, per certi aspetti ben più incisivo di un’invettiva o di un’indagine
sui crimini compiuti dagli sgherri di Videla: nel libro, infatti, non ci sono
mai parole dirette contro il regime, né si narra la storia di esso, e neppure
ci sono barlumi di analisi politica. Queste cose non ci sono perché non
appartengono alla vita di un bambino che, anche nei momento in cui è in fuga
assieme ai genitori e al fratellino, pensa ai suoi soldatini, alle avventure di
Superman, alle imprese di Houdini, alla sua serie televisiva preferita che
dovrà abbandonare nella casa da cui stanno scappando.
In questo modo la drammaticità dell’evento è parzialmente stemperata,
mentre la narrazione diviene leggera, ironica, a tratti divertente, benché
rimanga un fondo di amarezza e di commozione che le parole allegre, l’ironia,
ovviamente, non possono né devono cancellare. Ma scrivere questa storia
significa non spegnere la luce, dare continuità alle vite, illudersi che la
morte non le interrompa.
L’autore rilancia la fiducia nella capacità umana di raccontare
storie, anche quelle terribili; e il lettore gli è grato, perché la pesantezza
della situazione vissuta dalla famiglia in fuga raramente intacca la
scorrevolezza della narrazione. Agli occhi di un bambino, poi, questa fuga si
colora dei tratti dell’avventura: l’improvviso abbandono della scuola, la fuga
dalla casa di Buenos Aires, il nascondiglio in una casa fuori città, la nuova
scuola, l’amicizia con il giovane uomo Lucas (anch’egli in fuga e anch’egli
futuro desaparecido), la
clandestinità, l’assunzione di una nuova e falsa identità. Sono tutti
avvenimenti che il bambino affronta con la sua mentalità testarda, ingenua,
fantasiosa, aiutato anche dalla leggerezza del fratello, il “Nano”, un bimbo di
cinque anni. Per esempio, la preoccupazione principale del protagonista, quando
la mamma li porta verso il nascondiglio, è quella di non poter rivedere i
compagni di classe, di aver abbandonato i proprio giochi, i libri, il Risiko,
il barattolo di Nesquik. Ma gli avvenimenti che vivrà lo fanno anche crescere:
perché nei momenti drammatici, benché i genitori cerchino in ogni modo di
apparire tranquilli, egli osserverà la paura nei loro occhi e, da bambino,
intuisce che c’è pericolo, ma non sa elaborare razionalmente questa intuizione.
Forse è un bene: perché per lui non è giunto ancora, per fortuna, il tempo di
rendersi conto della tragedia che la sua famiglia sta vivendo. Questo tempo
verrà quando sarà adulto.
All’epilogo, l’ultimo capitolo, il cerchio si chiude. Il momento del saluto
definitivo al papà apre e termina il libro. La frase che contiene la parola
“Kamchatka” non è pronunciata casualmente: qualche sera prima di quell’addio,
Harry è riuscito finalmente a battere il papà giocando a Risiko. Non era mai
successo prima. E mai succederò dopo. Quella parola, quel riferimento a un
gioco, inserita in un saluto di commiato che il padre teme possa essere
definitivo, è un segno d’amore, perché è l’estremo tentativo di tenere fuori il
bambino da quella tragedia, proteggendolo, temporaneamente, da un dolore
immenso, che egli proverà soprattutto negli anni successivi, quando
comprenderà, quando gli racconteranno la storia dal punto di vista dei suoi
genitori. La mamma e il papà di Harry hanno cercato di proteggere i figli, di
rendere la loro vita accettabile anche nei mesi della clandestinità. Ormai, però, è giunto l’epilogo.
Il libro di Figueras non è un romanzo storico, né un’autobiografia.
Racconta una storia verosimile, traccia il quadro di una tragedia nazionale dal
punto di vista particolare di un bambino reso orfano senza colpa. Un regime
dittatoriale uccide i suoi oppositori, ma così facendo non crea solo delle
vittime in carne e ossa. Perché per ogni oppositore assassinato, fatto sparire,
ci sono altre persone che, pur non eliminate fisicamente, verranno in qualche
modo menomate, derubate di una parte di sé: sono i figli, le mogli, i mariti, i
familiari della persona uccisa. Al numero delle vittime andrebbe dunque
aggiunto quello delle persone distrutte interiormente, perché private di una
persona cara e amata.
Eppure, nonostante tutto, per
Figueras raccontare è una salvezza, perché significa trasmettere qualcosa a
qualcun altro, che vive in un tempo e in un luogo diversi, ma che può
intercettare una storia, raccontarla a sua volta, rilanciarla, diffonderla: “Io
credo che le storie non finiscano, perché anche quando la vita esaurisce la
propria energia dà vita ad altre vite. Un corpo morto (pensate agli embrioni)
non fa che moltiplicare la vita che vive sottoterra, perché dia frutti sulla
terra e nutra i tanti che, a loro volta, morendo daranno vita. Finché ci sarà
vita in questo universo, nessuna storia finirà del tutto: si trasformerà.
Quando moriamo, il racconto della nostra vita si limita a cambiare di genere:
non più un poliziesco, una commedia, una storia epica, ma un libro di
geografia, di biologia, di storia”.
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