La signora tiene stretta, quasi trionfante, l’ultimo libro
di Sveva Casati Modignani. Ben prima di essere acquistato dalla biblioteca, il
volume era già richiestissimo, un best-seller in fasce. Mentre porgo sorridente
questo voluminoso contenitore di parole, questo prodotto di una catena
editoriale infinita, il pensiero mio va alla distesa di libri che ammuffiscono
nel “magazzino”. Scorro i nomi di Bassani, Cassola, Volponi, e poi, più in
basso, scorgo Il lungo viaggio attraverso
il fascismo, l’opera di Zangrandi, un libro che, quando uscì, fece
discutere molto. Ma oggi quasi nessuno legge questi autori; forse si salva
Bassani, oppure talvolta le vicende della ragazza di Bube attraggono qualche
nostalgico. Percorrere questi scaffali, a volte, è come camminare in un
cimitero letterario. D’altra parte, questi autori un tempo furono notissimi
(benché Cassola e Bassani vennero sbeffeggiati dall’avanguardia e dal “Gruppo
‘63”, segno di miopia), ebbero il loro apogeo, e poi, adesso, un dolce oblio.
Cosa c’è di strano?
E poi, perché provo nostalgia per
un’età che non ho vissuto? È solo snobismo, incapacità di prendere atto della
realtà, dei suoi mutamenti? Disadattamento? D’altra parte, oggi per le case
editrici conta il guadagno: da tempo il libro è divenuto un prodotto
commerciale, che ha dei costi e che deve generare un ricavo. Se non può
vendere, non è pubblicato; se, una volta uscito, vende poco, presto viene smaltito.
L’età d’oro dell’editoria italiana è terminata da tempo. Anzi, forse non è mai
esistita. Con un meccanismo tanto inevitabile quanto perverso, tendiamo ad
ammantare di bellezza le epoche che non abbiamo vissuto, come se il tempo
trascorso fosse una specie di balsamo adatto per qualunque ferita. “il libro
non è né più né meno che un oggetto di consumo, effimero come qualsiasi altro.
Subito mandato al macero se ‘non funziona’, esso muore il più delle volte senza
essere stato letto” (D. Pennac, Come un
romanzo, Feltrinelli 2014, p. 115).
Non divaghiamo. Pensavo: non esiste più, oggi, la figura
dell’editore intellettuale che rischia il proprio denaro, alla Giulio Einaudi o
Valentino Bompiani; forse l’ultimo vero editore colto è stato Feltrinelli il
quale, nonostante l’astio che Bianciardi provava per lui, ha avuto coraggio,
pubblicando per esempio Il dottor Zivago,
prima di saltare in aria vicino a un traliccio dell’alta tensione nel 1972.
Insomma, le biblioteche non sono musei: se “tira” il libro di Littizzetto, be’,
bisogna comprarlo. Perché la biblioteca, benché non debba generare un utile monetizzabile (che parolaccia!), fa
parte di un ente locale che ha un bilancio e che, in tempi di ristrettezze
economiche, non può mantenere una biblioteca deserta, né permettere che si
spendano soldi per acquistare libri che nessuno prende in prestito.
Dico che è giusto così. È un ragionamento logico,
stringente, quasi ovvio. Gli scaffali però sono lapidi su cui leggo i segni di
una sconfitta, direi generazionale. O meglio, i segni della fine dell’illusione.
Quella secondo cui esiste una cultura “alta” (o presunta tale) da trasmettere
ai cittadini di qualunque grado di istruzione: come faceva la RAI un tempo, quando creava sceneggiati tratti da opere classiche come I fratelli Karamazov o I promessi sposi. Così chiunque poteva
seguire le vicende di questi romanzi: persone che non avrebbero mai letto le
storie di Renzo e Lucia, né quelle dei fratelli Karamazov, né la parabola del
grande Inquisitore, potevano comunque, grazie alla televisione, entrare in
contatto con queste storie. Naturalmente, il mezzo di comunicazione di massa
semplificava, rendeva piano il racconto, ne dava una visione edulcorata, eppure
fedele, filologica quasi.
Oggi anche il mezzo di comunicazione di massa è cambiato.
Oggi, se qualcuno gira un film intitolato Anna
Karenina deve indugiare sulla storia d’amore tra Anna e Vronskij in modo
quasi morboso; il problema è che il film è molto diverso dal libro, sia perché
è una forma d’arte differente, sia perché ha un pubblico diverso. Gli attori
dovranno essere bellissimi e attraenti (all’epoca dei fatti narrati da Tolstoj
gli uomini e le donne, seppur belli, di certo non avevano mani e pelle
curatissime come delle star, e spesso puzzavano alquanto); e nel film ci
dovranno essere scene di sesso che invece Tolstoj, naturalmente, non descrive
ma fa intuire in modo magistrale. Questo è un tradimento della pagina! Eppure
piace così. Chi sceneggia un film, d’altra parte, opera una riduzione, come si suol dire.
Ma pure lo scrittore tradisce un po’. Egli non descrive mai
la realtà così com’è, perché la realtà (o quello che si può definire tale), in
genere, è noiosa. Perciò il regista, quando trae una storia da un libro, deve
accentuarne gli aspetti emozionali, non potendo riprodurre la complessità delle
riflessioni dei protagonisti né la vastità della pagina scritta. Insomma, le
storie hanno bisogno di “pepe” per essere raccontate, amate, gustate dal
pubblico.
Perché invece non rappresentare la vita quotidiana così
com’è? Perché la vita della maggior parte delle persone è monotona. Non succede
quasi nulla. Si nasce, si cresce, si trova lavoro, ci si sposa, si fa qualche
figlio, ci si ammala e si muore. Che allegria eh eh! A chi interessa un libro
in cui non succede niente? Quasi a nessuno.
Qui non si tratta di realismo o iper-realismo narrativo, ma
di non trapanarsi i cosiddetti. Perché il raccontare storie è un’attività sì
connaturata all’essere umano, ma deve essere “drammatica”, ossia,
etimologicamente, carica d’azione, e poi traboccante di emozioni, quelle che
raramente si provano nella vita quotidiana. Nell’Iliade e nell’Odissea,
per esempio, succede di tutto. Omero, o chi per lui, l’aveva capito da tempo,
come l’avevano capito gli aedi e rapsodi suoi colleghi (cit. Le lacrime degli eroi). Nei film, nei
telefilm avvengono fatti che alle persone comuni non accadono quasi mai; un
romanzo che seguisse passo passo la vita ordinaria di un impiegato non
venderebbe copie. Eppure potrebbe essere una forma d’arte sui generis. Ma la gran parte della “gente” pretende storie che
diano emozione, favorendo la sua identificazione con i personaggi. È sempre
stato così. L’Ulisse di Joyce è un
capolavoro, ma non potrà mai essere letto da chiunque; per fortuna, aggiungo
io. Joyce asseriva che per lui gli eventi non avevano importanza (però in Dubliners ne succedono di cose!).
Un’idea simile dovevano averla anche Proust e Gertrude Stein. Ma la gente
comune non ce l’ha e non sopporta le storie che non sono tali, povere di
emozioni e di azioni. Non le sopporta e non le compra, a meno che non si tratti
di opere “classiche” (nel senso definito da Italo Calvino); mi pare che Sartre
sostenesse che un libro anche vende tante copie sia un libro mediocre, perché
piace a tutti. Può essere: peccato che Sartre vendesse moltissime copie.
Insomma: era una bella missione, dunque, quella di
voler trasmettere l’alta cultura alla massa: ma è stata una missione
fallimentare: la cultura “alta” non può essere mai di massa: sarebbe una
contraddizione. Ciò salva la cultura “alta” dalle contaminazioni e aumenta il
divario tra i pochi lettori colti e i tanti lettori medi. Ma è giusta questa
distinzione? Non so. Intanto, gli scaffali sono loculi dove parole, pagine,
carta, sudori, idee, guardano il bibliotecario o il lettore con occhi supplici,
chiedendo almeno di essere notati, osservati, se non letti.
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