Si viaggia per divertimento, per dovere, per sfuggire a un dolore, o per raggiungerlo, nostra malgrado; per raggiungere un amore, o per sfuggirlo, sempre nostro malgrado. Si viaggia perché non si ha niente da fare, per assassinare il tempo; oppure si viaggia perché si ha troppo da fare. Perché si è inquieti, tristi, soli, o perché si cerca il proprio sé o quello altrui.
La noia rimane sullo sfondo, come una presenza a volte benefica, spesso molesta; da scacciare. Il tempo che non passa mai, il "tempo lungo" fa paura, va "ammazzato", come si dice.
La noia, il grande terrore dell'uomo d'oggi, che spesso quando non ha nulla da fare è perduto. Perché magari teme di vedere la propria anima.
Ma diceva Leopardi: "la noia [è] della natura dell'aria: la quale riempie tutti gli spazi interposti alle altre cose materiali, e tutti i vani contenuti in ciascuna di loro; e donde un corpo si parte, e altro non gli sottentra, quivi ella succede immediatamente" (Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare).
Tempo fa, alla stazione, mi annoiai per un po'; guardai i soliti due o tre diseredati che avevano dormito lì. Guardai le scritte dei ragazzi sui pali di cemento della pensilina. E m'immaginai d'essere solo, sdraiato su una panchina, a guardare i treni passare, senza avere nulla da fare.
Mi è nata allora una poesia. Un vizio antico. La prima "stanza" del componimento è la seguente (il seguito forse un'altra volta):
I) Prima del passaggio
Una riflessione che non va giù,
e galleggia in gola.
La stazione deserta, spenta, inerte
e la noia distinta dell’ignoto
bacia i semafori verdi.
Ma i treni non sanno più muoversi, come me.
E allora io adagio questo mio tormentato presente
su una panchina di pietra, orlata di cicche annerite;
dormo tra una scritta ignota che reclama un amore,
e tra un’altra scritta, più in basso, che ricorda una data.
Ho lasciato il cuscino di là,
tra gli oggetti smarriti non reclamanti.
Non è stanotte come il sonno di casa:
il letto è una folla di dolori banali.
È troppo facile scrivere versi incostanti
osservando due binari infiniti
che la notte lucida illumina di angosce tiepide.
Si alzano le cartacce, ma non le temo,
e nemmeno mi spaventa la polvere:
solo le luci artificiali della città
incidono amarezze nella mia carne.
Maggio 2009
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