sabato 12 dicembre 2009
Espressione e interpretazione nel “lavoro” poetico
Quando ci sentiamo quasi soffocare da una grande emozione, il nostro spirito sembra prendere il volo; respiriamo allora profondamente, colmi di gioia, raggianti, a pieni polmoni, e il mondo stesso, la realtà quotidiana, assume un carattere differente, perché sembra partecipare della nostra allegria. Allo stesso modo, quando siamo tristi e abbattuti, ogni cosa diventa grigia, mesta, e ci aggredisce un grande pessimismo rispetto al nostro avvenire, mentre, se guardiamo al passato, si accumulano rimpianti, nostalgie, rimorsi e rabbie inespresse.
Sono questi i due grandi momenti, spesso poetici, che si potrebbero definire di "epifanie dei sentimenti profondi", nei quali il nostro animo si accende maggiormente e le nostre risorse emotive vengono utilizzate in grande misura. Infatti, anche nell’abbattimento più tetro, le emozioni galoppano e l’organismo stesso, in barba a qualsiasi concezione naturalista o positivista, ne risente in modo evidente. A questo punto sorge una domanda: esiste una perfetta simmetria tra queste due “profonde epifanie” dei sentimenti, una gioiosa e l’altra triste? In altre parole: il più tetro abbattimento corrisponde, simmetricamente, alla felicità che si sperimenta nei momenti più lieti? E poi un’altra questione si pone: cosa c’entrano queste epifanie con la produzione artistica nelle sue diverse forme?
La risposta alla prima domanda è agevole, perché nasce dall’esperienza di tutti gli uomini e non è dunque necessario richiamarsi ad illustri studiosi dei rapporti fra piacere e dolore, quali Pietro Verri, Leopardi e Schopenhauer: quasi sempre un momento di dolore, malessere, tristezza è più pesante da sopportare, o almeno appare tale alla maggioranza degli uomini. Infatti, se diversi momenti di gioia possono non essere sufficienti per donarci fiducia verso il futuro e vedere l’esistenza presente e futura con ottimismo, è sufficiente un periodo anche breve di tristezza, per far prevalere pensieri foschi, prospettive tragiche e pessimismo a grandi quantità. Con le parole di Schopenhauer: «l’esperienza […] ci insegna che la felicità e i piaceri sono soltanto chimere che un’illusione ci mostra in lontananza, mentre la sofferenza e il dolore sono reali e si annunciano direttamente da sé, senza bisogno dell’illusione e dell’attesa» (L’arte di essere felici, massima 16).
Ma non è di una questione filosofica che intendo parlare, perché la questione che m’interessa è un’altra ed è così riassumibile: che legame c’è tra le epifanie sentimentali e la scrittura di poesia? Il legame sussiste, indubbiamente, ma non perché la poesia esprima sentimenti, emozioni e così via, come banalmente si sostiene. La poesia, in realtà, non esprime nulla, se con tale termine si intende che essa sia in grado di donare consistenza a una sensazione interiore prima confusa e successivamente, proprio grazie alla poesia, divenuta più vivida e chiara. La poesia invece interpreta un’emozione (anzi, per usare un termine neutro, di un “oggetto mentale”), ovvero la trasforma, rendendola magari più chiara (ma non è questo il suo compito). Per questo la poesia agevola l’epifania di un sentimento, giacché essa non si limita a esprimerlo, ovvero a mostrarlo, a portarlo al di fuori di noi, bensì lo interpreta, dunque lo fa esistere, lo rende palese e vivido.
La differenza fra interpretazione e espressione non è capziosa, né intellettualistica; il termine “esprimere” connota l’atto che raccoglie il sentimento, presente in forma oscura, magmatica e indefinita nell’animo dell’artista, e lo espone all’esterno. Quest’atto di espressione non è definibile come “artistico” in senso tecnico dal momento che è appannaggio di ognuno di noi. Ogni individuo, infatti, durante la propria vita, esprime mille volte diversi sentimenti e diverse emozioni e quindi tale capacità, essendo praticamente connaturata all’uomo, non è rara e non necessita di talento, né di vocazione artistica. La sola cosa che distingue qualitativamente le diverse espressioni sentimentali è la forma che esse assumono agli occhi altrui (certamente varia anche il contenuto, ma è una cosa talmente ovvia sulla quale non è necessario soffermarsi), mentre il meccanismo che le innesca è innato e non si impara, perché si possiede già. Forse un tale meccanismo, nel corso degli anni, attraverso l’educazione e il confronto con gli altri, si può affinare, ma nulla più: piangere, gioire, manifestare dolore, allegria, costernazione ecc., sono atteggiamenti connaturati a tutti noi. Forse talvolta sarebbe bene imparare a contenersi, allorché li si esprime, ma questa è la sola capacità che si può acquisire e che può in qualche maniera influenzare il meccanismo innato di espressione di queste emozioni. Con ciò non intendo affermare che tale meccanismo di espressione sia passivo o superficiale; esso anzi è vitale perché perfettamente adatto alla vita dell’uomo (e della donna) non artista, anche se è ovviamente presente anche in chi è artista. Dunque, si può sostenere che tale capacità di espressione, per quanto grezza, spontanea, inconsapevole, sia fondamentale perché risulta essere il sostegno essenziale di qualsiasi capacità poetica (è di questa che stiamo parlando), ovvero della capacità di “interpretare” emozioni e sentimenti interiori.
Tuttavia, il poeta non esprime semplicemente, bensì interpreta una sensazione. Cosa significa? Vuol dire che egli la capta, la ghermisce nella sua veste magmatica e rudimentale, sotterranea e nascosta, portandola ad assumere, attraverso le parole scritte, una forma elegante, più definita, solare, grazie all’impiego di mezzi espressivi e tecniche artistiche, consentendo in tal modo la fruizione di quella sensazione, di quell’idea, di quell’“oggetto mentale”, agli altri. Rispetto al semplice risultato dell’espressione che si esterna, e che si concretizza in una manifestazione esteriore che ogni uomo essere umano può operare, il poeta fa qualcosa di più; in primo luogo, l’interpretazione del poeta è chiaramente un unicum, in virtù della sua forma, mentre le generiche espressioni dei sentimenti, negli uomini, talvolta ricalcano schematismi, clichè, prendendo spunto dal comportamento degli altri (si pensi al fenomeno dell’emulazione) o rifacendosi ai modelli comunicativi ed espressivi dei mass-media, delle opere letterarie, cinematografiche; in secondo luogo, il poeta è consapevole di quello che sta facendo, giacché non subisce semplicemente quel determinato oggetto mentale, ma lo guida, lo segue. In campo letterario l’interpretazione degli oggetti mentali è libera, anzi, essa è la più libera che esista, dal momento che la sua fonte primaria è la fantasia, la libera associazione degli oggetti mentali, oltre al vissuto individuale del poeta. Colui che esprime semplicemente una gioia o un dolore, e non li interpreta poeticamente, non impiega invece la fantasia.
Oltre a ciò, se dal punto di vista del momento creativo il “lavoro” poetico è assolutamente libero, nel momento in cui tale lavoro si invera, esso deve rispondere a delle norme, se così si possono chiamare. Tali norme, che hanno un carattere per così dire “morale”, impongono da un lato il rispetto della struttura linguistica, dall’altro il rispetto per la metrica (per chi segue una metrica), e, infine, il rispetto per la struttura semantica del linguaggio utilizzato. Infatti, pur ammettendo che la poesia si nutre di figure retoriche e di accostamenti linguistici inusuali, talvolta stravaganti, che non avrebbero la stessa funzione in un testo di prosa, né nel linguaggio parlato, non è possibile pensare che quando si scrive una poesia sia consentito impiegare le parole a proprio piacimento, come se esse fossero dei semplici segni adatti per esprimere qualunque contenuto. Non è così, dato che pure nella poesia, che volutamente stravolge i significati o li impiega in modo eccentrico, le parole possiedono una funzione non semplicemente segnica, bensì contenutistica. Dunque, il rapporto si inverte: non è la fantasia del poeta, non è la sua libertà che utilizza le parole a proprio piacimento, ma è l’estrema versatilità e ricchezza di un linguaggio, e delle sue espressioni, a permettere al poeta di esistere, liberamente, e alla poesia di prosperare. La ricchezza di un linguaggio, la sua evoluzione in lingua articolata e complessa, ricca di termini astratti, è infatti dimostrata dalla possibilità che esso offre, con il tempo, di consentire un’espressione poetica sempre più affinata. È quello il momento in cui il linguaggio diventa maturo; ma il poeta non deve abusare dell’ampiezza di significati che le parole possiedono, perché tradirebbe il linguaggio stesso.
Ma torniamo al discorso sulle differenze tra espressione e interpretazione. Si diceva poco prima che il poeta è consapevole di quel che fa, poiché è artefice del proprio lavoro. La persona comune, invece, quando esterna uno stato d’animo, non se ne rendo conto completamente, ma vive questo stato, anzi, lo subisce, e sovente ne parla come di qualcosa che l’ha ghermita. Tipiche sono a questo proposito espressioni: “m’ha preso”, “mi ha rapito”, “non ci ho più visto”, “è stato più forte di me” ecc. Ecco, se un poeta motivasse con queste espressioni la propria produzione artistica andrebbe bandito da qualsiasi consesso di poesia. Il poeta, invece, in quanto artista, dovrebbe essere capace di spiegare perché ha scritto qualcosa, perché ha scelto proprio quei versi e proprio quelle parole. Intendiamoci: nessuno pretende che il poeta sia perfettamente cosciente del meccanismo che l’ha condotto a produrre un testo, né che giustifichi ogni riga, ogni figura retorica impiegata; nondimeno, egli sa quel che fa, non ha agito a caso e, benché possa non conoscere con esattezza il moto interiore che l’ha indotto a scrivere certe cose, egli è capace di parlarne, di accennare a esso con dovizia di particolari, non per definirlo in modo razionale, né per concettualizzarlo, bensì per riferirsi ad esso come alla sorgente, nascosta, dei suoi versi. La persona non poeta, che esprime invece un sentimento, non sa spiegare alcunché: il poeta ne è capace, soprattutto se è un poeta autentico, reale, sincero.
Vi è poi un’ulteriore distinzione, più significativa, tra espressione e interpretazione di un sentimento: la persona comune esprime un sentimento in particolari circostanze; o meglio, ogni momento della vita di qualsiasi individuo è accompagnato da determinati oggetti mentali, i quali variano per forma ed intensità. Esistono tuttavia certi particolari avvenimenti che accendono, più di altri, il mondo mentale dell’individuo: durante questi avvenimenti, oppure in conseguenza del loro presentarsi, gli oggetti mentali divengono più chiari, le emozioni più intense, vivide (si pensi a un matrimonio, una morte, una nascita e così via). Questi accadimenti sono come una luce che fa orientare verso di essa pressoché l’intero mondo mentale individuale, mettendo a tacere o comunque riducendo lo spazio per altri generi di emozioni. Sono questi i momenti in cui l’espressione del sentimento risulta particolarmente vivida e decisa: solo allora l’individuo scopre la propria vita emotiva in tutta la sua forza e comprende quanto poco potere abbia ciò che viene definito “ragione” o, in ambito morale, “coscienza”.
Anche il poeta, naturalmente, essendo un uomo come gli altri, vive eventi che spingono al massimo la sua carica emotiva: egli non differisce in nulla dagli altri uomini in ciò. Nondimeno, il poeta si comporta diversamente dopo l’evento: per lui, spesso, il ricordo dell’emozione patita non si arresta alla semplice spontanea espressione di essa. Egli è capace, o quantomeno, possiede le potenzialità per andare oltre questa espressione primaria, in buona misura inconsapevole, e per trasfigurare l’emozione espressa in un prodotto letterario che non rievoca direttamente l’evento o il fatto che l’hanno originato, ma si collega ad esso in modo sottile, non immediatamente evidente. In altre parole, il poeta prende spunto da un fatto, un evento, un dolore, una gioia che anche altri possono aver sperimentato, ma non si arresta alla loro manifestazione, per così dire, fenomenica, bensì la oltrepassa, rendendola tale sensazione universale, sebbene non incapace di rievocare ricordi e sensazioni, magari sopite da tempo. Se non fosse così, perché le vere opere d’arte fanno questo effetto a chi le osserva? Perché, per esempio, le poesie migliori non smettono di parlarci attraverso i secoli e per quale ragione, a ogni rilettura di una poesia, esse ci trasmettono sempre nuove sensazioni e magari emozioni diverse?
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