martedì 22 maggio 2012

Giovanni Pascoli. Cent'anni da solitario



La mia sera

Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle. Nei campi
c'è un breve  gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggiera.
Nel giorno, che lampi! che scoppi!
Che pace, la sera!

Si devono aprire le stelle
nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell'aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
nell'umida sera.

È, quella infinita tempesta,
finita in un rivo canoro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d'oro.
O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell'ultima sera.

Che voli di rondini intorno!
Che gridi nell'aria serena!
La fame del povero giorno
prolunga la garrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l'ebbero intera.
Né io ... che voli, che gridi,
mia limpida sera!

Don ... Don ... E mi dicono, Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!
là, voci di tenebra azzurra ...
Mi sembrano pianti di culla,
che fanno ch'io torni com'era ...
sentivo mia madre ... poi nulla ...
sul far della sera.

Vorrei brevemente ricordare Giovanni Pascoli (1855-1912), di cui nel 2012 ricorre il centenario della morte. Spesso si pensa a Pascoli come un autore lontano anni luce dai modi poetici d’oggi; un autore che appartiene a un’epoca remota, le cui poesie tanti anni fa s’imparavano a memoria, quando la scuola (forse giustamente) obbligava a farlo. La lontananza di Pascoli è dovuta alla progressiva perdita di significatività del verso in rima e dell’osservanza della metrica. La poesia italiana del ‘900 si è progressivamente affrancata dalla necessità di rispettare rigorose regole compositive, e si può asserire che il ricorso alla rima sia stato assai raro. In realtà, la musicalità e la tensione poetica oggi spesso si ritrovano nelle assonanze o in un lessico poetico che ha in sé, nella successione dei lemmi, una musicalità e un ritmo propri. Tuttavia, l’idea secondo cui il verso libero sia uno strumento alla portata di tutti per scrivere poesie è sciocca, come è altrettanto sbagliata la convinzione secondo cui la scrittura in rima sia sempre figlia di una poetica vecchia, che cade nella filastrocca o nel recitativo (si pensi al Montale di Ossi di seppia dove ci sono rime mirabili).
Anche il linguaggio e lo stile di Pascoli appaiono figli di un’altra epoca, a un’occhiata superficiale. Benché lontano dalla retorica carducciana (un autore nel quale i temi esistenziali, forse, a volte sono stati oscurati da una fedeltà eccessiva a formule metriche classiche) e già diretto verso un linguaggio poetico più sciolto, Pascoli scrive in un italiano ancora infarcito di termini “difficili” e da forme poetiche desuete. Non a caso i crepuscolari, in primis Gozzano, contrapporranno alla retorica della poesia italiana di inizio ‘900, un linguaggio (in apparenza) piano e colloquiale, e temi poetici (solo in apparenza) banali e quotidiani. Ma Gozzano conserverà il ricorso alla rima e l’amore per l’endecasillabo, dimostrandosi influenzato da Pascoli stesso, anche perché il vero obiettivo polemico della poetica “minimalista” (niente affatto minimalista, per la verità, se si leggono bene i suoi testi) di Gozzano è Gabriele D’Annunzio.
In realtà, i temi delle poesie di Pascoli appartengono anche a noi, alla nostra epoca. Esiste, infatti, nella sua poesia un senso oscuro dell’esistenza che non sembra offuscato dalla retorica (come in certi componimenti di Carducci), ma che, anzi, si mostra pienamente, con limpidezza. L’attenzione alla vita quotidiana, alla piccola esistenza, alle azioni consuete, alla natura, all’individuo nella sua semplicità (esiste in Pascoli una “retorica” del fanciullino, ma essa non è tronfia né insincera), colorano la sua poesia di temi profondamente innovativi che, sebbene in forme poetiche differenti, influenzeranno di gran lunga la poesia italiana successiva (a partire dai crepuscolari). Il riferimento alla natura come luogo dove si svolge l’esistenza degli uomini, l’attenzione ai fenomeni atmosferici individuati come metafore di qualcosa di elevato e oscuro che non sappiamo intendere pienamente, sono temi della poesia pascoliana che credo possiedano ancora un grande valore. E non si dimentichi nemmeno il tono “civile” di alcuni suoi componimenti.
Pascoli è un autore del proprio tempo, che scriveva impiegando stilemi poetici usuali al suo tempo; ma egli seppe andare oltre tali stilemi, affrontando nelle sue poesie temi di spessore universale. Pascoli ha lasciato un’eredità di spessore alla cultura italiana: ricordarsi di lui non vuol dire celebrarlo in modo vacuo, ma significa rileggere i suoi testi, superare la distanza tra i modi poetici d’oggi e quelli d’allora, e immergersi nella sua poetica, nella sua malinconia, così moderna e vicina a noi.

martedì 15 maggio 2012

Poesie sul calcio



Ci sono “leggende” anche in uno sport, come il calcio moderno, che di leggendario e di artistico sembra avere ben poco. I soldi, le scommesse, l’abuso di farmaci, la violenza e così via, sono ferite nel corpo e nell’anima dei tifosi. Eppure il calcio è ancora seguitissimo ed è per molte persone una passione, a volte eccessiva, talvolta potente. Forse perché quasi tutti, da ragazzini, almeno una volta hanno giocato a pallone. D’altra parte, è un gioco facile da giocare: bastano un pezzo di cemento, oggetti di qualsiasi genere per fare i pali delle porte (ma si può giocare anche a una porta). Poi ci vuole un pallone, sebbene ridotto male, e un amico. Però si può anche giocare da soli. E non è necessario essere in undici. Si può essere in tre, quattro, cinque. Così il “gioco” è fatto: è sufficiente infine tirare calci a un pallone, anche con la punta delle scarpe, come viene. L’azione di dare calci è tra le più naturali del mondo: quando camminiamo, quante volte, senza pensarci, abbiamo dato un calcetto a una piuma, a una foglia che capita tra i nostri piedi, a una cicca di sigaretta, o al vento…?
Più tardi, per chi ha talento, arriveranno le scarpe con i tacchetti, i campi, le prime sfide, le prime incavolature, i primi insulti, la prima rete; per i pochissimi che sfondano ci saranno soldi, gloria, fatica, ma a volte anche sofferenza, drammi.
Sembra che gli Atzechi (o erano i Maya?) giocassero con la palla uno sport non dissimile dal gioco del calcio. Celebre poi è il calcio fiorentino, che è però più affine al moderno rugby. Il calcio come oggi lo conosciamo nacque in Inghilterra nella seconda metà dell’Ottocento. E ha conquistato il mondo intero, Stati Uniti a parte (forse allergici a tutto ciò che veniva dal Regno Unito).
Qualche intellettuale disprezza il calcio, giudicandolo, a seconda dei casi, uno sport per gente belluina oppure uno sport giocato da ricchi scemi. Opinione accettabile: se non si condivide una passione è impossibile capirla. Meno giusto sarebbe denigrarla. Il calcio, nonostante tutto, è ancora lo sport più popolare, anzi, più nazional-popolare, e questo è significativo.
È un gioco che può riservare gioia e dolori, e che può ospitare in sé anche della poesia. La traiettoria perfetta, liftata, di un pallone che si infila in rete dopo aver disegnato un arco in aria, non è un atto artistico? Certo, artistico in senso “basso”, ma comunque tale è. Il balzo del portiere che arriva in alto e che, per un pelo, riesce a toccare il pallone, evitando di subire una rete, non può avere il sapore di un’opera d’arte? E il clima di passione (quando non degenera), la tensione, la gioia sfrenata della vittoria, le lacrime della sconfitta, la sfida uno contro l’altro, che ammette un solo vincitore, hanno talvolta il sapore di un momento lirico.
Ecco perché mi piace mettere qui due poesie sul gioco del pallone. La prima è di Umberto Saba (1883-1957), che scrisse cinque famose poesie sul gioco del calcio. Saba era tifoso della Triestina (i “rosso-alabardati”), una squadra gloriosa tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta. La poesia qui riprodotta celebra la leggerezza e la giovinezza dei calciatori che appaiono lontani da angosce e tristezze. Si tratta di un’illusione, senza dubbio, ma il poeta sembra non volerci pensare; egli è anzi lieto nel vedere che quei giovani illudano anche lui illudendo se stessi.
L’altra è una poesia, minore, scritta da Vittorio Sereni (1913-1983). Probabilmente è dedicata a una vittoria della Juventus (che negli anni ’30 vinse cinque scudetti di fila) a Milano contro l’Inter, allora chiamata Ambrosiana. In questi versi il tripudio della partita, la festa, sono contrapposti al silenzio, spesso amaro, che segue ogni allegria. E l’illusione della gioia non è temperata da alcuna consolazione, ma è una presenza colma d'angoscia, che culmina in una serata piovosa dove ogni tripudio e passione si spengono.

Squadra paesana (U. Saba)

Anch’io tra i molti vi saluto, rosso-alabardati,
sputati dalla terra natia,
da tutto un popolo amati.
Trepido seguo il vostro gioco.
Ignari esprimete con quello antiche cose
meravigliose
sopra il verde tappeto, all'aria, ai chiari
soli d'inverno.

Le angosce
che imbiancano i capelli all'improvviso,
sono da voi così lontane!
La gloria vi dà un sorriso
fugace: il meglio onde disponga. Abbracci
corrono tra di voi, gesti giulivi.

Giovani siete, per la madre vivi;
vi porta il vento a sua difesa. V’ama
anche per questo il poeta, dagli altri
diversamente - ugualmente commosso.

DOMENICA SPORTIVA (V. Sereni)

Il verde è sommerso in neroazzurri.
Ma le zebre venute di Piemonte
sormontano ricosse a un hallalì
squillato dietro barriere di folla.
Ne fanno un reame bianconero.
la passione fiorisce fazzoletti
di colore sui petti delle donne.

Giro di meriggio canoro,
ti spezza un trillo estremo.
A porte chiuse sei silenzio d’echi
nella pioggia che tutto cancella.

giovedì 10 maggio 2012

Esserci




Non c’è più spazio per le nostalgie,
e le graffianti ironie del primo periodo
sono un ricordo giallognolo.
Vagiscono sottilmente le lenzuola al vento.
Cadono i vasi con i fiori della gioventù
e si perdono nell’aria vaghi accordi di chitarra,
come perdute melodie senza più senso.
Si staccano dagli alberi fanciulli i frutti nuovi,
ma il sapore è quello antico, stantio,
una sapore che non ha nome né profumo
e che nessuno saprebbe più definire.
La primavera si consuma ogni anno e sorride di meno.
Passa l’età, passano idee e sogni brillanti,
si spengono trionfali discorsi sul nulla che è tutto
e viceversa.
È difficile brindare con gioia quando il vino è scolorito
ed è difficile essere contenti per quel che si ha,
perché quel che manca, a volte, sembra essere la vera poesia.
L’inganno è svelato e nascosto ogni giorno, s’illudono i bambini
che studiano da adulti, cercando di pietrificare i momenti belli
per non dimenticarli più.
Fatica vana. Per fortuna.
Una natura morta in bianco e nero è il dono della noia,
e i quadri nelle stanze dei propri giorni lenti
cambiano colore ogni momento,
ingannando chi li guarda, chi li dipinge e chi ci scrive sopra.
Poi i cani abbaiano e tutto finisce: il sogno d’artista,
il pensiero alto, l’idealismo adolescenziale,
mentre la nebbia primaverile cancella sbadigli e lamenti,
e il trapano del falegname rutta come un ossesso
perché almeno il sabato, sì, almeno il sabato…
I quadri sono tornati al loro posto, multicolori e immutabili
e uno starnuto, talvolta, diventa la cosa più interessante
della giornata. Fino alla prossima notte.

IL PICCOLO MONDO ANTICO DEL GENERALE VANNACCI

  Il libro di Roberto Vannacci è a metà strada tra un pamphlet/saggio e un manifesto politico e affronta molti temi: ambiente, economia, fam...