Signorina Felicita, a quest’ora
scende
la sera nel giardino antico
della
tua casa. Nel mio cuore amico
scende
il ricordo. E ti rivedo ancora,
e
Ivrea rivedo e la cerulea Dora
e quel
dolce paese che non dico.
Signorina
Felicita, è il tuo giorno!
A
quest’ora che fai? Tosti il caffè:
e il
buon aroma si diffonde intorno?
O cuci
i lini e canti e pensi a me,
all’avvocato
che non fa ritorno?
E l’avvocato
è qui: che pensa a te.
Queste prime strofe sono una sorta di sommario dell’intera poesia e forniscono
altresì indicazioni geografiche sul luogo della casa della Signorina. Il
protagonista è un uomo che vive in città, annegati tra gli affanni quotidiani,
pungolato dall’inquietudine derivante dall’esser poeta, ed è attratto dalla
semplice vita campagnola nel Canavese della sua “Musa”: questo appellativo,
dato alla Signorina, è ironico e serio al contempo; da un lato, ragionando con
i canoni poetici in voga a inizio ‘900 (Pascoli escluso, però), appare infatti inusuale,
quasi blasfemo, che una donna semplice e umile possa ispirare una poesia.
Dall’altro lato, però, proprio questa indicazione illumina la novità costituita
dalla poesia di Gozzano, sia rispetto al linguaggio che ai contenuti. Se la società
piccolo borghese è ormai del tutto priva di arte e di poesia e, anzi, considera
queste attività “eversive” perché non producono profitto, il poeta non può far
altro che rendere minima e “meschina” la poesia, per adeguarla a questa ristretta
società borghese. Le brutture di tale società non possono essere messe alla
berlina da una poesia che adotta un registro linguistico alto e che mette l’accento
sulla propria radicale diversità; perché una tale poesia, paradossalmente,
finirebbe per confermare il pregiudizio borghese contro l’arte, dichiarandosi sua sponte eversiva e del tutto aliena
da essa. Invece, pensa Gozzano, solo una poesia che si mimetizza, che si
nasconde, può avere uno spazio, per quanto precario e fragile: “Il facile e
ingannevole estetismo, in cui l’alto stile della tradizione perduta si risolve
storicamente, si corromperà a contatto con la dura e provocante verità di un
livello basso di quotidiana intonazione, anzi confesserà la propria intrinseca
corruzione, e intanto, e per contro, l’insorgere realistico del prosaico, del
parlato, denunzierà la miseria concerta delle cose, l’impossibilità di una
redenzione estetica della vita” (E. Sanguineti). La
casa della Signorina è colma di oggetti logori, polverosi: essa è l’immagine
della degradazione cui conduce la vita borghese, volta solo alla moneta. Ma la Signorina
non possiede un gusto estetico sensibile e raffinato: così non soffre inutilmente
e vive la propria semplice esistenza senza porsi domande vane, che non hanno
mai risposta. Si limita a portare avanti la propria vita minima: cuce le
lenzuola, prepara il caffè, si occupa della casa, paziente, e del padre burbero
e ottuso.
Sei quasi brutta, priva di
lusinga
nelle tue vesti quasi campagnole,
ma la tua faccia buona e
casalinga,
ma i bei capelli di color di
sole,
attorti in minutissime
trecciuole,
ti fanno un tipo di beltà
fiamminga...
E rivedo la tua bocca vermiglia
così larga nel ridere e nel bere,
e il volto quadro, senza sopracciglia,
tutto sparso d’efelidi leggiere
e gli occhi fermi, l’iridi sincere
azzurre d’un azzurro di stoviglia...
così larga nel ridere e nel bere,
e il volto quadro, senza sopracciglia,
tutto sparso d’efelidi leggiere
e gli occhi fermi, l’iridi sincere
azzurre d’un azzurro di stoviglia...
Tu m’hai amato. Nei begli occhi
fermi
rideva una blandizie femminina.
Tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina:
e più d’ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!
[…]
Tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina:
e più d’ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!
[…]
Talora - già la mensa era
imbandita -
mi trattenevi a cena. Era una cena
d’altri tempi, col gatto e la falena
e la stoviglia semplice e fiorita
e il commento dei cibi e Maddalena
decrepita, e la siesta e la partita...
mi trattenevi a cena. Era una cena
d’altri tempi, col gatto e la falena
e la stoviglia semplice e fiorita
e il commento dei cibi e Maddalena
decrepita, e la siesta e la partita...
Per la partita, verso ventun’ore
giungeva tutto l’inclito collegio
politico locale: il molto Regio
Notaio, il signor Sindaco, il Dottore;
ma - poiché trasognato giocatore -
quei signori m’avevano in dispregio...
giungeva tutto l’inclito collegio
politico locale: il molto Regio
Notaio, il signor Sindaco, il Dottore;
ma - poiché trasognato giocatore -
quei signori m’avevano in dispregio...
Il poeta non partecipa al gioco e ai discorsi
noiosi di questi uomini tardi e lenti. Anche loro, infatti, sono figli della
società commerciale piccolo-borghese, che in loro, poi, si sposa con l’ottusità
campagnola. Il poeta preferisce farsi cullare dai rumori della cucina,
dall’attività da semplice massaia della sua Musa e della governante; un po’
stordito dal suono delle suppellettili d’un tempo, delle casseruole, immerso
nei profumi forti della cucina campagnola, egli trascorre pacifico la sera
“accordando le sillabe dei versi”. E sebbene il suo triste destino torni
talvolta a inquietarlo e il suo animo poetico volto alla malinconia si faccia
sentire, il sorriso semplice della Signorina gli dona nuovamente speranza.
M’era
più dolce starmene in cucina
tra le
stoviglie a vividi colori:
tu
tacevi, tacevo, Signorina:
godevo
quel silenzio e quegli odori
tanto
tanto per me consolatori,
di
basilico d’aglio di cedrina...
Maddalena
con sordo brontolio
disponeva
gli arredi ben detersi,
rigovernava
lentamente ed io,
già
smarrito nei sogni più diversi,
accordavo
le sillabe dei versi
sul
ritmo eguale dell’acciottolio.
Vedevo questa vita che m’avanza:
chiudevo gli occhi nei presagi grevi;
aprivo gli occhi: tu mi sorridevi,
ed ecco rifioriva la speranza!
Giungevano le risa, i motti brevi
dei giocatori, da quell’altra stanza.
chiudevo gli occhi nei presagi grevi;
aprivo gli occhi: tu mi sorridevi,
ed ecco rifioriva la speranza!
Giungevano le risa, i motti brevi
dei giocatori, da quell’altra stanza.
In altre occasioni, i due giovani camminano nella soffitta della vecchia
villa, laddove il ciarpame tanto caro
alla mia Musa è ovunque. E di nuovo il luogo reale si trasfigura divenendo,
nell’animo del poeta, un agognato luogo ideale di quiete. Anche i brutti
dipinti, i vecchi materassi e le stampe polverose sono parte di quel mondo di
sogno dove il poeta pensa di trovare respiro e quiete. È un’illusione, lui in
fondo lo sa, eppure, vicino alla sua semplice Signorina, egli non vuole pensare
che non possa accadere.
Il nostro passo diffondeva l’eco
tra quei rottami del passato
vano,
e la Marchesa dal profilo greco,
altocinta, l’un piede ignudo in
mano,
si riposava all’ombra d’uno speco
arcade, sotto un bel cielo
pagano.
Intorno a quella che rideva
illusa
nel ricco peplo, e che morì di
fame,
v’era una stirpe logora e
confusa:
topaie, materassi, vasellame,
lucerne, ceste, mobili: ciarpame
reietto, così caro alla mia Musa!
[…]
Io risi, tanto che fermammo il
passo,
e ridendo pensai questo pensiero:
Oimè! La Gloria! un corridoio
basso,
tre ceste, un canterano dell’Impero,
la brutta effigie incorniciata in
nero
e sotto il nome di Torquato
Tasso!
D’altra parte la serenità, in quell’abbaino ingombro di sciocchezze, non è
totale. Un animo inquieto porta con sé ovunque il proprio disagio, come un
guscio di lumaca. Il poeta e la Signorina guardano spensierati il tramonto.
Tuttavia il pensiero della morte (l’Eguagliatrice),
che non smette mai di mietere vittime, e degli uomini (“quei cosi con due
gambe”) che, sciocchi, si affannano, combattono per raggiungere scopi futili e
vani, tortura ancora il poeta. Come è possibile distaccarsi da pensieri tanto
gravi, ai quali si è assuefatti? Non è possibile, sebbene egli finga di credere
che lì, in campagna, potrebbe vivere senza essere investito non dalla morte
(che raggiunge gli uomini ovunque), ma dalle inutili angosce del mondo moderno.
Non vero (e bello) come in uno
smalto
a zone quadre, apparve il
Canavese:
Ivrea turrita, i colli di
Montalto,
la Serra dritta, gli alberi, le
chiese;
e il mio sogno di pace si protese
da quel rifugio luminoso ed alto.
Ecco - pensavo - questa è l’Amarena,
ma laggiù, oltre i colli
dilettosi,
c’è il Mondo: quella cosa tutta
piena
di lotte e di commerci turbinosi,
la cosa tutta piena di quei “cosi
con due gambe” che fanno tanta
pena...
L’Eguagliatrice numera le fosse,
ma quelli vanno, spinti da
chimere
vane, divisi e suddivisi a
schiere
opposte, intesi all’odio e alle
percosse:
così come ci son formiche rosse,
così come ci son formiche nere...
Schierati al sole o all’ombra
della Croce,
tutti travolge il turbine dell’oro;
o Musa - oimè! - che può giovare
loro
il ritmo della mia piccola voce?
Meglio fuggire dalla guerra
atroce
del piacere, dell’oro, dell’alloro...
L’aspirazione ad allontanarsi in modo definitivo dagli affanni mondani
intacca anche la passione letteraria. Questo è un altro tema centrale del
componimento. Gozzano afferma di non desiderare la gloria dell’alloro, la
gloria poetica. La sua ironia si volge contro Gabriele D’Annunzio che, a inizio
‘900, spiccava sulla scena poetica italiana (Cfr. La tregua, vv. 4-6, in Alcyone:
O magnanimo Dèspota, concedi/al buon
combattitor l’ombra del lauro,/ch’ei senta l’erba sotto i nudi piedi). Ma il
poeta pescarese è al contempo amato e odiato da Gozzano (mentre Giovanni Pascoli è amato e basta), la cui opera trae
diversi spunti dalla poesia di D’Annunzio, benché adotti stilemi e argomenti
differenti. Contro una poesia giudicata retorica e roboante, Gozzano professa
la propria fede in una poesia semplice e piana e, di riflesso, in un’esistenza
genuina, semplice, scevra da protagonisti e gesti eclatanti. E la stoccata
contro colui che diverrà il Vate d’Italia è chiara: egli è un ciarlatano
(“cerretano”) che non ha di mira la poesia, bensì la sola gloria personale (scrive
Gozzano citando Dante: per far di sé
favoleggiare altrui). E tuttavia, sia D’Annunzio che Gozzano denunciano lo
stesso male: il rischio della morte della poesia nella prosaica ed economica
società piccolo-borghese, dove ciò che conta è solo il guadagno immediato (la
poesia Il fuoco di D’Annunzio è il
modello che il Nostro utilizza per descrivere la decadente villa della
Signorina). Se simile è il male diagnosticato, la cura per debellarlo è
differente: mentre per l’autore di Alcyone
la poesia può salvarsi dal mondo borghese solo riaffermando il proprio valore
aulico, nobile, superiore alla realtà, per Gozzano la poesia deve mimetizzarsi
con il mondo borghese, assumerne i tratti minimi, dimessi, ovvero descriverlo
senza metterlo (in apparenza) in discussione.
L’alloro... Oh! Bimbo semplice
che fui,
dal cuore in mano e dalla fronte
alta!
Oggi l’alloro è premio di colui
che tra clangor di buccine s’esalta,
che sale cerretano alla ribalta
per far di sé favoleggiar
altrui...
“Avvocato, non parla: che cos’ha?”
“Oh! Signorina! Penso ai casi
miei,
a piccole miserie, alla città...
Sarebbe dolce restar qui, con
Lei!...”
“Qui, nel solaio?...” - “Per l’eternità!”
“Per sempre? Accetterebbe?...” - “Accetterei!”
Per fortuna la Signorina, con la sua voce semplice, lo distrae da questi
pensieri foschi, da queste ardite e faticose riflessioni poetiche e
filosofiche. I due tornano allora ad ammirare il tramonto che abbraccia il
Canavese: sono soli, ma alla fine la Signorina, temendo che gli altri pensino
che loro siano lì a fare cose poco belle,
si ribella alla perplessità “crepuscolare”.
L’aggettivo è qui riferito ovviamente al declinare del sole, ma diventa
chiaramente l’attributo di una nuova atmosfera poetica.
Le fronti al vetro, chini sulla piana,
seguimmo i neri pipistrelli, a frotte;
giunse col vento un ritmo di campana,
disparve il sole fra le nubi rotte;
a poco a poco s’annunciò la notte
sulla serenità canavesana...
seguimmo i neri pipistrelli, a frotte;
giunse col vento un ritmo di campana,
disparve il sole fra le nubi rotte;
a poco a poco s’annunciò la notte
sulla serenità canavesana...
“Una stella!...” - “Tre stelle!...” – “Quattro stelle!...”
“Cinque stelle!” - “Non sembra di sognare?...”
Ma ti levasti su quasi ribelle
alla perplessità crepuscolare:
“Scendiamo! é tardi: possono pensare
che noi si faccia cose poco belle...”
“Cinque stelle!” - “Non sembra di sognare?...”
Ma ti levasti su quasi ribelle
alla perplessità crepuscolare:
“Scendiamo! é tardi: possono pensare
che noi si faccia cose poco belle...”
Ma potrebbe esserci vero amore tra il poeta, anzi, l’avvocato (come lo chiama la Signorina) e questa donna campagnola?
Forse quel che il poeta cerca è solo una distrazione dai propri affanni, fisici
e letterari. Egli ha l’impressione di non provare più alcun piacere nel
compiere le attività a cui fino a quel momento si era dedicato sino ad
ammalarsi nell’animo e nel fisico. La poesia e l’amore, egli confessa, lo hanno
entrambi tradito. Le donne amate non gli hanno rapito mai il cuore: fredde e
intellettuali, intente a seguire un modello di vita letterario, esse lo
hanno deluso (sono stanco delle donne
rifatte sui romanzi!). La Signorina, invece, umile e semplice, genuina,
forse potrebbe fargli battere finalmente il cuore. Pure la poesia lo ha deluso:
la ricerca dei versi migliori, dell’ispirazione, delle parole più pure
e alte; la necessità di scrivere, di leggere e studiare, di apprendere, e
l’amara consapevolezza che le cose che restano da conoscere saranno sempre più
numerose di quelle conosciute, tolgono al poeta il desiderio di continuare a
essere un letterato. Soprattutto perché tutta la cultura faticosamente
acquisita non gli ha mai chiarito il significato dell’esistenza, ma, anzi,
glielo ha reso ancora più oscuro.
“Tutto mi spiace che mi piacque innanzi!
Ah! Rimanere qui, sempre, al suo fianco,
terminare la vita che m’avanzi
tra questo verde e questo lino bianco!
Se Lei sapesse come sono stanco
delle donne rifatte sui romanzi!
Vennero donne con proteso il cuore:
ognuna dileguò, senza vestigio.
Lei sola, forse, il freddo sognatore
educherebbe al tenero prodigio:
mai non comparve sul mio cielo grigio
quell’aurora che dicono: l’Amore...”
Tu mi fissavi... Nei begli occhi fissi
leggevo uno sgomento indefinito;
le mani ti cercai, sopra il cucito,
e te le strinsi lungamente, e dissi:
“Mia cara Signorina, se guarissi
ancora, mi vorrebbe per marito?”.
“Perché mi fa tali discorsi vani?
Sposare, Lei, me brutta e poveretta!...”
E ti piegasti sulla tua panchetta
facendo al viso coppa delle mani,
simulando singhiozzi acuti e strani
per celia, come fa la scolaretta.
Ma, nel chinarmi su di te, m’accorsi
che sussultavi come chi singhiozza
veramente, né sa più ricomporsi:
mi parve udire la tua voce mozza
da gli ultimi singulti nella strozza:
“Non mi ten...ga mai più... tali dis...corsi!”
“Piange?” E tentai di sollevarti il viso
inutilmente. Poi, colto un fuscello,
ti vellicai l’orecchio, il collo snello...
Già tutta luminosa nel sorriso
ti sollevasti vinta d’improvviso,
trillando un trillo gaio di fringuello.
Donna: mistero senza fine bello!
Ah! Rimanere qui, sempre, al suo fianco,
terminare la vita che m’avanzi
tra questo verde e questo lino bianco!
Se Lei sapesse come sono stanco
delle donne rifatte sui romanzi!
Vennero donne con proteso il cuore:
ognuna dileguò, senza vestigio.
Lei sola, forse, il freddo sognatore
educherebbe al tenero prodigio:
mai non comparve sul mio cielo grigio
quell’aurora che dicono: l’Amore...”
Tu mi fissavi... Nei begli occhi fissi
leggevo uno sgomento indefinito;
le mani ti cercai, sopra il cucito,
e te le strinsi lungamente, e dissi:
“Mia cara Signorina, se guarissi
ancora, mi vorrebbe per marito?”.
“Perché mi fa tali discorsi vani?
Sposare, Lei, me brutta e poveretta!...”
E ti piegasti sulla tua panchetta
facendo al viso coppa delle mani,
simulando singhiozzi acuti e strani
per celia, come fa la scolaretta.
Ma, nel chinarmi su di te, m’accorsi
che sussultavi come chi singhiozza
veramente, né sa più ricomporsi:
mi parve udire la tua voce mozza
da gli ultimi singulti nella strozza:
“Non mi ten...ga mai più... tali dis...corsi!”
“Piange?” E tentai di sollevarti il viso
inutilmente. Poi, colto un fuscello,
ti vellicai l’orecchio, il collo snello...
Già tutta luminosa nel sorriso
ti sollevasti vinta d’improvviso,
trillando un trillo gaio di fringuello.
Donna: mistero senza fine bello!
La Signorina è andata a scuola quanto basta: vive nel suo piccolo mondo,
non ha bisogno di leggere, di apprendere (celebre il verso “non leggi Nietzsche”
che rima con “camicie”), ma accetta umilmente quel che l’esistenza ogni giorno
le manda. Crede a quel che le hanno sempre detto essere la verità. Non esercita
il dubbio cartesiano. Di fronte a questa donna dimessa, che non si pone mai
domande sul significato dell’esistenza e che, almeno in apparenza, vive quieta,
Gozzano, che conosce le angosce e i turbamenti prodotti da una inclinazione
spiccata all’introspezione, giunge ad affermare di odiare la ricerca del
sapere, e, di converso, il proprio animo gelido (che alterna l’indagine e la rima come scriverà in Totò Merùmeni, vedi qui), giungendo infine a
disconoscere se stesso, sia come individuo e
io non voglio più essere io!, sia come poeta: Io mi vergogno, sì, mi vergogno d’essere un poeta!. Afferma infatti
di sognare una donna che non lo comprende, che non comprenderebbe questi versi
scritti proprio per lei. Sarebbe la sua donna ideale, molto più allettante di un’intellettuale gemebonda.
La contrapposizione tra la vita concreta, intenta alla moneta, e la
sfuggente e gelida vita del letterato, è una costante nella poesia di Gozzano.
Nella Signorina Felicita egli tratta
questo tema in modo diretto, senza perifrasi, con versi rapidi, all’apparenza
non ricercati. In realtà la sua poesia è intessuta di riferimenti nobili alla
poesia francese di fine secolo (soprattutto da Francis Jammes),
ai classici italiani (Dante e Petrarca ma anche l’Ariosto) o dai contemporanei
(Pascoli e D’Annunzio). Inoltre, la malinconia e l’ironia del poeta regalano ai
suoi versi un tocco quasi commovente, pensando al tragico destino che
l’attendeva. Destino tragico, ossia la morte prematura nel 1916, dovuta a
quella che egli definisce Signora vestita
di nulla, cfr. la poesia Alle soglie,
vv. 29-34: “È una Signora vestita di
nulla e che non ha forma./Protende su tutto le dita, e tutto che tocca
trasforma./Tu senti un benessere come un incubo senza dolori;/ti svegli mutato
di fuori, nel volto nel pelo nel nome./Ti svegli dagl’incubi innocui, diverso
ti senti, lontano;/né più ti ricordi i colloqui tenuti con guidogozzano”.
Oh! questa vita sterile, di sogno!
Meglio la vita ruvida concreta
del buon mercante inteso alla moneta,
meglio andare sferzati dal bisogno,
ma vivere di vita! Io mi vergogno,
sì, mi vergogno d’essere un poeta!
Tu non fai versi. Tagli le camicie
per tuo padre. Hai fatta la seconda
classe, t’han detto che la Terra è tonda,
ma tu non credi... E non mediti Nietzsche...
Mi piaci. Mi faresti più felice
d’un’intellettuale gemebonda...
Meglio la vita ruvida concreta
del buon mercante inteso alla moneta,
meglio andare sferzati dal bisogno,
ma vivere di vita! Io mi vergogno,
sì, mi vergogno d’essere un poeta!
Tu non fai versi. Tagli le camicie
per tuo padre. Hai fatta la seconda
classe, t’han detto che la Terra è tonda,
ma tu non credi... E non mediti Nietzsche...
Mi piaci. Mi faresti più felice
d’un’intellettuale gemebonda...
Tu ignori questo male che s’apprende
in noi. Tu vivi i tuoi giorni modesti,
tutta beata nelle tue faccende.
Mi piace. Penso che leggendo questi
miei versi tuoi, non mi comprenderesti,
ed a me piace chi non mi comprende.
Ed io non voglio più essere io!
Non più l’esteta gelido, il sofista,
ma vivere nel tuo borgo natio,
ma vivere alla piccola conquista
mercanteggiando placido, in oblio
come tuo padre, come il farmacista...
Ed io non voglio più essere io!
La poesia si conclude con una scena d’addio che Gozzano descrive imitando i
modi poetici e letterari romantici. Nella sua ricerca di una dimensione “altra”
rispetto a un mondo contemporaneo che lo angustia, egli immagina una scena
d’altri tempi, quando le donne salutavano con lacrime e fazzoletti i loro
uomini che andavano in guerra. Pure il poeta va via, ma non parte per
partecipare ad alcuna battaglia sul campo militare, anche se dovrà misurarsi
con nemici tremendi: la malattia e l’angoscia. Il paragone tra la tragicità
degli addii d’un tempo e la prosaicità del loro saluto crea un effetto ironico
notevole. I due amanti si giurano amore eterno e la Signorina, nella sua
semplicità campagnola, giura con comica solennità, arrivando a scrivere sul
muro la data di quella promessa memoranda.
Il poeta tace di fronte a questo gesto adolescenziale. Egli sa che sicuramente
quel giuramento non potrà essere rispettato, poiché lui non può sfuggire alla
propria condanna di letterato e di uomo malato. La tubercolosi e la poesia sono
due malanni inguaribili: entrambi esigono attenzione assoluta e non abbandonano
la propria vittima. È impossibile sfuggire a un male incurabile come alla
vocazione poetica. Il poeta non cede al sentimentalismo: asserisce che partirà
per terre lontane, più salubri. E la Signorina rimane lì, nella sua goffa posa
romantica: lo attenderà, fiduciosa e ingenua, innamorata di un uomo d’altri tempi, un buono sentimentale
giovine romantico.../Quello che fingo d’essere e non sono!, conclude con
amarezza il poeta. In definitiva la Signorina lo ama per quel che egli vorrebbe
essere, ma che in realtà non è e mai sarà.
Nel mestissimo giorno degli addii
mi piacque rivedere la tua villa.
La morte dell’estate era tranquilla
in quel mattino chiaro che salii
tra i vigneti già spogli, tra i pendii
già trapunti da bei colchici lilla.
[…]
mi piacque rivedere la tua villa.
La morte dell’estate era tranquilla
in quel mattino chiaro che salii
tra i vigneti già spogli, tra i pendii
già trapunti da bei colchici lilla.
[…]
“Viaggio con le rondini
stamane...”
“Dove andrà?” - “Dove andrò? Non so... Viaggio,
viaggio per fuggire altro viaggio...
Oltre Marocco, ad isolette strane,
ricche in essenze, in datteri, in banane,
perdute nell’Atlantico selvaggio...
Signorina, s’io torni d’oltremare,
non sarà d’altri già? Sono sicuro
di ritrovarla ancora? Questo puro
amore nostro salirà l’altare?”
E vidi la tua bocca sillabare
a poco a poco le sillabe: giuro.
Giurasti e disegnasti una ghirlanda
sul muro, di viole e di saette,
coi nomi e con la data memoranda:
“Dove andrà?” - “Dove andrò? Non so... Viaggio,
viaggio per fuggire altro viaggio...
Oltre Marocco, ad isolette strane,
ricche in essenze, in datteri, in banane,
perdute nell’Atlantico selvaggio...
Signorina, s’io torni d’oltremare,
non sarà d’altri già? Sono sicuro
di ritrovarla ancora? Questo puro
amore nostro salirà l’altare?”
E vidi la tua bocca sillabare
a poco a poco le sillabe: giuro.
Giurasti e disegnasti una ghirlanda
sul muro, di viole e di saette,
coi nomi e con la data memoranda:
trenta settembre novecentosette...
Io non sorrisi. L’animo godette
quel romantico gesto d’educanda.
Le rondini garrivano assordanti,
garrivano garrivano parole
d’addio, guizzando ratte come spole,
incitando le piccole migranti...
Tu seguivi gli stormi lontananti
ad uno ad uno per le vie del sole...
[…]
Giunse il distacco, amaro senza fine,
e fu il distacco d’altri tempi, quando
le amate in bande lisce e in crinoline,
protese da un giardino venerando,
singhiozzavano forte, salutando
diligenze che andavano al confine...
M’apparisti così come in un cantico
del Prati, lacrimante l’abbandono
per l’isole perdute nell’Atlantico;
ed io fui l’uomo d’altri tempi, un buono
sentimentale giovine romantico...
Quello che fingo d’essere e non sono!
quel romantico gesto d’educanda.
Le rondini garrivano assordanti,
garrivano garrivano parole
d’addio, guizzando ratte come spole,
incitando le piccole migranti...
Tu seguivi gli stormi lontananti
ad uno ad uno per le vie del sole...
[…]
Giunse il distacco, amaro senza fine,
e fu il distacco d’altri tempi, quando
le amate in bande lisce e in crinoline,
protese da un giardino venerando,
singhiozzavano forte, salutando
diligenze che andavano al confine...
M’apparisti così come in un cantico
del Prati, lacrimante l’abbandono
per l’isole perdute nell’Atlantico;
ed io fui l’uomo d’altri tempi, un buono
sentimentale giovine romantico...
Quello che fingo d’essere e non sono!
Nella mia vita ormai lunga m'è capitato non so quante volte - magari cercando altre cose - di imbattermi in questa poesia, e mai sono riuscito a rinunciare al malinconico piacere di rileggerla fino in fondo... fino alla chiusa dove questo poeta decadente confessa la sua finzione, mentre i suoi colleghi D'annunzio e Pascoli vi sprofondarono completamente, e magari, qualche volta, credendoci veramente.
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