Da DOPO CAMPOFORMIO
Una
terra
Un bioccolo di lana
frusta nel tramonto alberi, fiori,
muove il trotto dell’onda.
Sulla sponda i ragazzi con la schiena
inarcata puntano i piedi nella rena;
“dài pa’ssì, oh… ooh!” lo scafo stride
sulle palanche nere, Antonio padre
sfiora l’acqua, è nel mare,
apre cigno le ali, le lampare,
anatrelle, l’avvincono con corde
e la flottiglia corre in alto mare.
Nella notte, chini sul fondo, gli uomini
pescano se la luna è piena
o la corrente non spinge in Dalmazia
il cefalo che volge guizzi in oro.
Un lume è acceso
laggiù oltre il mio dito:
Antonio padre al palpito
del primo fiore in cielo tornerà.
L’inverno è lungo stretto dentro un mare
pauroso; quando giugno allora
brucia il dorso ai delfini
i marinai avventano nei solchi
sonno, fatica, reti rammendate.
È morto il capitano. Cade
in mare ogni luce di festa
dai giovani cuori; a riva
le donne attendono ammucchiate.
Un marinaio è al timone, bianco agnello;
così gli uomini antichi veleggiavano
approdavano a isole felici.
La barca vira, si torce, si china
mentre s’alza il lamento. Una voce:
“Tu, tesoro di mamma, meschina
perla bruciata da un vulcano,
sei trascinato a terra con la mano
in croce, sulla sabbia, dal vento, uccello
spento di rabbia, scuro, ecco il riposo”.
Vanno in tumulto con le ali aperte.
I fortunali cadevano sulle onde deserte
al colpo della frusta di questo uomo.
Steso sul sacco è un tronco incenerito,
è tuono offeso, esploso, dileguato;
il calzone al ginocchio accartocciato.
Vita, mia vita come
sei terribile e amata: uno sconforto
senza consolazione è ancora vivo
negli occhi di questo morto che ieri
con tutti i suoi pensieri era nel mare.
Il venditore di pesce per strade e
sentieri
fu in America un tempo.
“Sempre un fumo nel cielo;
pane, carbone, nel vino la polvere;
tristi le donne, negli occhi la polvere;
i ricordi chiamavano lontano.
Ora mio figlio lavora a Milano
e quella è la mia casa. Addio America”.
Sul prato ferma ride la sua casa
cresciuta in fretta.
Spinge la bicicletta, grida il pesce
giallo sul ghiaccio e viole:
“chi prende il pesce, pesce fresco di
mare?”
va scalzo a chiamare
sul viale nell’ombra dei tronchi,
sfiorato da siepi a filo del mare.
Un vagabondo canta e ruvidi
marinai ascoltano a un fanale.
Sulla strada appassiscono i gerani
bucati dai fari delle macchine,
autotreni scuotono l’asfalto,
i pioppi coprono fra lo stridio dei freni
l’agonia di un gatto sfracellato.
“A Senarica, amica di Venezia…”
fuochi verdi aprono la gola
ai cani sulle aie del monte
screziato da barbagli sereni all’orizzonte.
Il vecchio intona con pena un canto triste
e i fiori tremano, cadono,
muoiono nella polvere.
L’erba è gialla, pietre; il cimitero
con gli ulivi e cipressi sbiaditi.
Anche nella pace i morti
non hanno tregua, risaliti
dal profondo si stringono le mani
rotte dalla fatica.
Madri stroncate dalle gravidanze,
invecchiate con pazienza infinita su reti,
uomini stanchi più dell’aria d’autunno:
con il viso inchiodato fra due date
sanno che non c’è pianto non gridato
né un giorno senza male: che la vita
nel dolore fu tutta patita.
Rimpiangono solo l’oblio dei vivi,
d’essere dimenticati in poche ore.
I ricchi almeno
hanno il nome dipinto nelle prore
delle barche che rosse sul lido
con gli alberi e vele ammainate
attendono la piena primavera
per gettarsi con un grido sui branchi
morbidi e azzurri
nelle calme correnti verso l’Africa.
La rocca ancora incombe a precipizio.
Un tempo sulle alture
i noci contorti strisciavano a terra
foglie di quattrocento anni, eppure
adesso il silenzio è favola
per i vecchi che muoiono nel sole.
Le case all’ombra delle tamerici,
fra le siepi, case di girovaghi
e pescatori, pittate di bianco,
formaggio fresco su una foglia
di fico, sono cadute;
scompare adagio la gente
che non trema alle nevi dell’inverno.
Crescono giovani aspri, amare mandorle
in un tempo d’inferno, di lampi
e sorprese telluriche nell’aria
grigia che illividisce ogni città;
il sangue arde dentro i cuori straziati
dall’unghia del mostro che si torce.
Ma quale mondo apparirà
dopo la pena necessaria!
Là il monte, laggiù è il mare:
il mare con le speranze strappate
a una barca che adagio s’avvicina.
Sui chioschi di benzina
cantano i tordi e volano nelle vallate
alle ragazze dal petto tremante
oh così dolcemente.
Quelle del mare, ardite fiere
contrastano, sono restie agli sguardi
maliziosi e azzannano
come i lupi di selva.
(Pace con voi, ragazze dell’Abruzzo,
una è sangue al mio cuore.)
A Corropoli fumano i camini,
gli alberi difendono le case
dove i topi imperversano e la razza
degli uomini passati consumò
nel rancore una vita vile.
Case per amori di monache,
per grida soffocate, per pugnali
cavati al frusciare di un uscio
o all’ombra di un cortile.
Ma strappa la tenda dal cielo
una donna accosciata nel vento,
canta un riso gentile;
palpita l’aria fatta azzurra
al lume dei suoi occhi
mentre con le mani in cui traluce l’osso
sceglie e vaglia il frumento.
Per un approfondimento, interessante e denso questo contributo
del 2005 della rivista “Poesia”: http://www.poesia.it/servizi/ROVERSI.pdf
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