sabato 23 marzo 2013

Vasco Pratolini. Il Quartiere

Si legge volentieri questo romanzo di Vasco Pratolini (1913-1991); forse, tra le altre cose, per quell’atmosfera fiorentina che piace tanto, soprattutto a chi va a Firenze solo per fare il turista. Oppure perché la storia ha molti aspetti del romanzo di formazione di un gruppo di giovani che vive in un Quartiere (con la “q” maiuscola, essendo “il” quartiere per antonomasia) che è un mondo a sé ambivalente: nicchia protettiva e prigione, luogo di esperienze di vita da amare e odiare, centro della propria esistenza e luogo da cui fuggire per cominciare a vivere davvero. “La nostra vita erano le strade e le piazze del Quartiere, fiorentini di antica razza, di ‘antico pelo’ dicevamo scherzando. Si stava agli angoli delle vie, sotto la Volta ove fu trafitto Corso Donati e ci si stava senza alcun sospetto di tutto questo, ‘popolo minuto’ sempre, fatto ignaro ormai, ciompi da se stessi traditi. Sulle antiche vestigia si illuminava la rosticceria il cui banco spandeva attorno odore di polpette di patate, di coniglio arrosto, di verdura fritta” (cap. I).
La storia di questo gruppo di adolescenti che cresce fra diverse esperienze si snoda con leggerezza; lo scrittore racconta in prima persona, ma senza rovinare al lettore nessuna sorpresa. Chi scrive è ugualmente ignaro, alla pari di chi legge, di quel che accadrà ai protagonisti. La prosa, in prevalenza concisa e volutamente popolareggiante, è assai gustosa; si alternano nelle pagine del romanzo momenti di puro realismo e attimi di lirismo, sullo sfondo di miseria e sfortuna di un Quartiere proletario, dove le passioni d’amore sfiorano le passioni politiche, la vicende storiche (il fascismo, la guerra d’Africa del ’35) si riverberano sulle vicende personali dei ragazzi, creando un quadro letterario variopinto e intenso.
Il protagonista, Valerio, è il personaggio che assorbe diversi aspetti delle vicende che accadono agli altri ragazzi. È nell’incontro con l’amore che avviene in lui una sorta di epifania generazionale. La sua scoperta dell’amore avviene grazie al passaggio tra l’arroganza adolescenziale e la dolcezza del rapporto vero con una donna. Dal suo fidanzamento per Marisa, ragazza che lui possiede senza amare e che era già stata dell’amico-nemico Carlo, all’amore vero e autentico per Olga, ragazzina che per lui diventa la donna ideale, una sorta di soggetto mitico, impossibile anche da toccare.
Il fallimento di entrambi queste storie, nonostante lo scoramento subìto, arricchirà Valerio, che comprenderà, forse, come la strada verso la maturità comincia quando si ha meno paura delle proprie debolezze, né si teme la confessione del proprio dolore. Parlando con il padre del suo sentimento verso Olga, Valerio dice: “[mi piaceva] perché era bella babbo. Perché quando le stavo vicino mi sembrava di avere accanto un essere soprannaturale e appena la lasciavo mi prendeva lo struggimento in cuore … Di giorno, la luce, le cose da fare, la gente con cui parlo, mi distraggono. Anche se fra me e le cose, fra me e la gente c’è sempre la sua immagine riesco ad andare al di là e mi controllo. Ma la notte, o quando sono solo a tu per tu col suo viso che ho sempre davanti agli occhi come ora, come ogni momento, più il tempo passa e meno resisto” (Cap. XXX).
Una tale confessione di “debolezza” da parte di un uomo, nel tempo del virilismo fascista, si configura come un atto di ribellione, non politica, certamente, ma esistenziale, e dunque assai più indicativa. Tutti i personaggi del romanzo vanno incontro a un destino diverso, eppure sono legati da un filo, da una convinzione, da una speranza un po’ folle: la disperazione e la miseria possono essere riscattate, e anche chi è fascista e va in guerra volontario, scopre presto che l’inganno politico consiste proprio nell’illudere il misero che il riscatto della sua esistenza sta nel compiere un’azione eroica.
Il romanzo svela la grande lucidità dell’autore, la sua convinzione che sussiste un legame tra gente nata tra le stesse case, le stesse strade; anche chi è andato in Africa volontario, e poi è morto, rimane uno di loro. Lo scrive un amico di Valerio, Giorgio, allorché gli rivela la morte di Carlo (ex fidanzato di Marisa) che secondo lui “si meritava meno di tutti di morire in questa guerra. Non mi vergogno di dirti che ho pianto come un bambino quando ho saputo la notizia e spero che lo stesso sia successo a te. Malgrado le sue idee era uno dei nostri, o almeno uno col quale si sarebbe potuto fare i conti a viso aperto”.
Ecco ciò che mi ha affascinato di questo libro: la descrizione del senso di appartenenza a una comunità piccola, il Quartiere, che è una specie di enorme utero, dal quale ognuno prende vita, per poi seguire la propria strada. È poi l’esistenza a influenzare i diversi destini, le varie scelte, in un turbine nel quale è impossibile non smarrirsi, come se in fondo nessuno di noi scelga mai veramente qualcosa in piena autonomia. Questo humus comune permane nei protagonisti come un tratto distintivo, anche se il trascorrere degli anni porta alcuni di loro in altri luoghi; ed è così tenace da sopravvivere alla distruzione del vecchio quartiere, che viene sventrato dalle autorità cittadine.
Anzi, per paradosso, la fine del Quartiere, che giunge all’epilogo del romanzo, rende ancora più saldo il senso di appartenenza a una comunità viva. Lo stesso Valerio lo afferma, nel penultimo capitolo, quando, tornato da militare, si trova immerso in un mondo diverso, ignoto: “la speranza era davvero racchiusa nel Quartiere – mura, lastrici e volti erano una costante testimonianza della nostra ragione da far valere un giorno. Se avessimo soggiaciuto a recarci nelle nuove case della periferia, in ambienti più puliti, e salubri, che non avrebbero alleviato in nulla la nostra miseria, ma l’avrebbero bensì corrotta d’altre perfide voglie e tentazione, ci saremmo dispersi e traditi. Dovevamo invece reggere fino in fondo alla rappresentazione del nostro squallore, come un emblema appeso alla soglia del mondo, e restare uniti, spalla a spalla, fare un cerchio attorno alle nostre case in cui ogni angolo, ogni crepa erano il simbolo della speranza ed ogni sguardo, ogni corpo, un grido di incatenata protesta”.
Un’àncora di salvezza esiste ancora, per loro, i sopravissuti non alla guerra o al fascismo (che nella finzione letteraria è ancora in piedi), ma allo stravolgimento quotidiano e banale di esistenze che la vita ordinaria provoca. È singolare che sia proprio Marisa, la donna che Valerio ha “amato” solo per la carne, a donare coraggio al protagonista, abbattuto moralmente a causa della fine del Quartiere: “Hai trovato diverso il Quartiere. Ma la gente c’è ancora tutta, lo sai. Si è ammassata nelle case rimaste in piedi come se si fosse voluta barricare. Quei pochi che sono andati ad abitare alla periferia, dove c’è l’aria aperta e il sole, nel Quartiere li considerano quasi dei disertori”. E Valerio allora conclude: “Infatti … anche l’aria e il sole sono cose da conquistarsi dietro le barricate”, con una battuta che di certo possiede un significato metaforico, pensando alla Resistenza, e al fatto che il romanzo è stato scritto nel 1943.

2 commenti:

  1. Non ho letto questo libro, ma sicuramente con questa recensione mi hai incuriosito. Lo riporrò nella lista dei libri d'acquistare e leggere. Grazie Giuseppe.

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  2. Grazie a te, vedrai sarà un'ottima lettura...

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