Si legge
volentieri questo romanzo di Vasco Pratolini (1913-1991); forse, tra le altre
cose, per quell’atmosfera fiorentina che piace tanto, soprattutto a chi va a
Firenze solo per fare il turista. Oppure perché la storia ha molti aspetti del
romanzo di formazione di un gruppo di giovani che vive in un Quartiere (con la
“q” maiuscola, essendo “il” quartiere per antonomasia) che è un mondo a sé
ambivalente: nicchia protettiva e prigione, luogo di esperienze di vita da
amare e odiare, centro della propria esistenza e luogo da cui fuggire per
cominciare a vivere davvero. “La nostra vita erano le strade e le piazze del
Quartiere, fiorentini di antica razza, di ‘antico pelo’ dicevamo scherzando. Si
stava agli angoli delle vie, sotto la Volta ove fu trafitto Corso Donati e ci
si stava senza alcun sospetto di tutto questo, ‘popolo minuto’ sempre, fatto ignaro
ormai, ciompi da se stessi traditi. Sulle antiche vestigia si illuminava la
rosticceria il cui banco spandeva attorno odore di polpette di patate, di
coniglio arrosto, di verdura fritta” (cap. I).
La storia di
questo gruppo di adolescenti che cresce fra diverse esperienze si snoda con
leggerezza; lo scrittore racconta in prima persona, ma senza rovinare al
lettore nessuna sorpresa. Chi scrive è ugualmente ignaro, alla pari di chi
legge, di quel che accadrà ai protagonisti. La prosa, in prevalenza concisa e
volutamente popolareggiante, è assai gustosa; si alternano nelle pagine del
romanzo momenti di puro realismo e attimi di lirismo, sullo sfondo di miseria e
sfortuna di un Quartiere proletario, dove le passioni d’amore sfiorano le
passioni politiche, la vicende storiche (il fascismo, la guerra d’Africa del
’35) si riverberano sulle vicende personali dei ragazzi, creando un quadro
letterario variopinto e intenso.
Il
protagonista, Valerio, è il personaggio che assorbe diversi aspetti delle
vicende che accadono agli altri ragazzi. È nell’incontro con l’amore che
avviene in lui una sorta di epifania generazionale. La sua scoperta dell’amore
avviene grazie al passaggio tra l’arroganza adolescenziale e la dolcezza del
rapporto vero con una donna. Dal suo fidanzamento per Marisa, ragazza che lui
possiede senza amare e che era già stata dell’amico-nemico Carlo, all’amore
vero e autentico per Olga, ragazzina che per lui diventa la donna ideale, una
sorta di soggetto mitico, impossibile anche da toccare.
Il fallimento
di entrambi queste storie, nonostante lo scoramento subìto, arricchirà Valerio,
che comprenderà, forse, come la strada verso la maturità comincia quando si ha meno
paura delle proprie debolezze, né si teme la confessione del proprio dolore.
Parlando con il padre del suo sentimento verso Olga, Valerio dice: “[mi
piaceva] perché era bella babbo. Perché quando le stavo vicino mi sembrava di
avere accanto un essere soprannaturale e appena la lasciavo mi prendeva lo
struggimento in cuore … Di giorno, la luce, le cose da fare, la gente con cui
parlo, mi distraggono. Anche se fra me e le cose, fra me e la gente c’è sempre
la sua immagine riesco ad andare al di là e mi controllo. Ma la notte, o quando
sono solo a tu per tu col suo viso che ho sempre davanti agli occhi come ora,
come ogni momento, più il tempo passa e meno resisto” (Cap. XXX).
Una tale
confessione di “debolezza” da parte di un uomo, nel tempo del virilismo
fascista, si configura come un atto di ribellione, non politica, certamente, ma
esistenziale, e dunque assai più indicativa. Tutti i personaggi del romanzo
vanno incontro a un destino diverso, eppure sono legati da un filo, da una
convinzione, da una speranza un po’ folle: la disperazione e la miseria possono
essere riscattate, e anche chi è fascista e va in guerra volontario, scopre
presto che l’inganno politico consiste proprio nell’illudere il misero che il
riscatto della sua esistenza sta nel compiere un’azione eroica.
Il romanzo
svela la grande lucidità dell’autore, la sua convinzione che sussiste un legame
tra gente nata tra le stesse case, le stesse strade; anche chi è andato in
Africa volontario, e poi è morto, rimane uno di loro. Lo scrive un amico di
Valerio, Giorgio, allorché gli rivela la morte di Carlo (ex fidanzato di
Marisa) che secondo lui “si meritava meno di tutti di morire in questa guerra.
Non mi vergogno di dirti che ho pianto come un bambino quando ho saputo la
notizia e spero che lo stesso sia successo a te. Malgrado le sue idee era uno
dei nostri, o almeno uno col quale si sarebbe potuto fare i conti a viso
aperto”.
Ecco ciò che
mi ha affascinato di questo libro: la descrizione del senso di appartenenza a
una comunità piccola, il Quartiere, che è una specie di enorme utero, dal quale
ognuno prende vita, per poi seguire la propria strada. È poi l’esistenza a
influenzare i diversi destini, le varie scelte, in un turbine nel quale è
impossibile non smarrirsi, come se in fondo nessuno di noi scelga mai veramente
qualcosa in piena autonomia. Questo humus
comune permane nei protagonisti come un tratto distintivo, anche se il
trascorrere degli anni porta alcuni di loro in altri luoghi; ed è così tenace
da sopravvivere alla distruzione del vecchio quartiere, che viene sventrato
dalle autorità cittadine.
Anzi, per
paradosso, la fine del Quartiere, che giunge all’epilogo del romanzo, rende
ancora più saldo il senso di appartenenza a una comunità viva. Lo stesso
Valerio lo afferma, nel penultimo capitolo, quando, tornato da militare, si
trova immerso in un mondo diverso, ignoto: “la speranza era davvero racchiusa
nel Quartiere – mura, lastrici e volti erano una costante testimonianza della
nostra ragione da far valere un giorno. Se avessimo soggiaciuto a recarci nelle
nuove case della periferia, in ambienti più puliti, e salubri, che non
avrebbero alleviato in nulla la nostra miseria, ma l’avrebbero bensì corrotta
d’altre perfide voglie e tentazione, ci saremmo dispersi e traditi. Dovevamo invece
reggere fino in fondo alla rappresentazione del nostro squallore, come un
emblema appeso alla soglia del mondo, e restare uniti, spalla a spalla, fare un
cerchio attorno alle nostre case in cui ogni angolo, ogni crepa erano il
simbolo della speranza ed ogni sguardo, ogni corpo, un grido di incatenata protesta”.
Un’àncora di
salvezza esiste ancora, per loro, i sopravissuti non alla guerra o al fascismo
(che nella finzione letteraria è ancora in piedi), ma allo stravolgimento
quotidiano e banale di esistenze che la vita ordinaria provoca. È singolare che
sia proprio Marisa, la donna che Valerio ha “amato” solo per la carne, a donare
coraggio al protagonista, abbattuto moralmente a causa della fine del
Quartiere: “Hai trovato diverso il Quartiere. Ma la gente c’è ancora tutta, lo
sai. Si è ammassata nelle case rimaste in piedi come se si fosse voluta
barricare. Quei pochi che sono andati ad abitare alla periferia, dove c’è
l’aria aperta e il sole, nel Quartiere li considerano quasi dei disertori”. E
Valerio allora conclude: “Infatti … anche l’aria e il sole sono cose da
conquistarsi dietro le barricate”, con una battuta che di certo possiede un
significato metaforico, pensando alla Resistenza, e al fatto che il romanzo è
stato scritto nel 1943.
Non ho letto questo libro, ma sicuramente con questa recensione mi hai incuriosito. Lo riporrò nella lista dei libri d'acquistare e leggere. Grazie Giuseppe.
RispondiEliminaGrazie a te, vedrai sarà un'ottima lettura...
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