Giuseppe Barreca
L’ULTIMO GIORNO DI LAVORO
ho fatto passi indietro
da gigante, in questi mesi;
il
mio cervello
trema come marmellata
marcia, moglie mia, figli miei:
il mio cuore è nero,
pesa 51 chili:
ho messo la mia pelle
sopra i vostri bastoni:
e già vi vedo agitarvi come vermi: adesso
vi lascio cinque
parole, e addio:
non
ho creduto in niente.
(E. Sanguineti, “Postkarten”)
Era l’ultimo giorno di lavoro per
l’impiegato. Dal giorno successivo avrebbe lavorato per un altro ente locale.
Pioveva. Era d’aprile ma pioveva come Dio o qualche altra divinità la mandava.
Un turbine d’acqua dal cielo, incessante. Le strade percorse da piccoli
torrenti di melma, polvere bagnata, coriandoli di chissà quale carnevale. Le
montagne attorno circondate da spirali di nubi pronte a strozzarle come
serpenti. Il cielo cupo, le strade deserte. La signora del ristorante di fronte
era la stessa di tutti i giorni: una pelliccia sintetica addosso, le usuali
scarpe con tacco a spillo con le quali guadava le strade allagate. Ombrello
inutile, acqua ovunque, vento lassù e quaggiù.
La timbratrice quella mattina non
funzionò. E che importa? È l’ultimo giorno. Però che strano. Non aveva fatto il
solito suono secco. Niente inchiostro bluastro sul cartellino (altro che
badge!), né impronta con l’ora di entrata. Per sincerarsi del fatto che la
macchina funzionasse, tirò fuori i cartellini dei due operai, i quali entravano
mezz’ora prima di lui. Ed erano timbrati! Chissà, forse è uno sgarbo della vecchia
timbratrice.
Ripensò alla prima timbrata due
anni e mezzo prima. Non sapeva un tubo di niente! Gli dovettero spiegare persino
come si timbra sia l’entrata sia l’uscita. Ignorava il lavoro, ignorava tutto,
eccetto di ignorare. Un lavoratore socratico. Invece erano passati due anni e
mezzo e il cartellino con la prima timbratura giaceva in archivio. Gli avrebbe
fatto piacere rivederlo, pensò. Osservare la macchiolina di sudore che aveva
umidificato la cartellina quel primo, infinito giorno. Anche allora era un
lunedì. Ma poi si disse che non c’era spazio per nessun romanticismo,
quell’ultimo giorno. Entrò nel suo ufficio.
La finestra era percorsa da
rivoletti d’acqua che creavano sul vetro un effetto surreale, come le porte a
vetri dei bagni di una volta. Zigrinate e tristi. La stampante a getto
d’inchiostro non funzionava, ma non se la prese perché non era una novità. Le
diede il solito pugno sulla testata, alla stampante, ma quella niente, fece
solo un piccolo rumore, simile a una pernacchia di un bambino. Stronza, pensò,
non ti dirò nemmeno “addio”, le promise minaccioso.
Attraversò il minuscolo atrio per
entrare nella stanza di fronte, l’ufficio tecnico che il lunedì mattina era
vuoto. La tenda da campeggio dove dormiva il vicesindaco era insolitamente in
ordine, il sacco a pelo ripiegato, il fornello da campeggiatore a posto e
spento. Da quando gli era sfuggita una pratica edilizia fondamentale (essendo
lui vicesindaco e anche imprenditore edile, poteva essere da mano del
Berlusca?), aveva deciso di dormire nell’ufficio tecnico dalla domenica al
venerdì. Quella mattina l’ufficio era meno caotico del solito; aleggiava
nell’aria un leggero odore di frittata di cipolle che si mischiava con eleganza
al profumo di carta e inchiostro. Avanzo della cena domenicale consumata lì
dentro.
Il sindaco, per restare in tema,
dormiva da qualche settimana in archivio, nella brandina che, durante le
elezioni, veniva data ai carabinieri che presidiavano il seggio elettorale.
Cacciato da casa a causa della sua carica politica, si era rifugiato in comune,
nell’archivio umido e freddo: aveva rimediato un termoconvettore per scaldarsi.
La mattina presto scendeva al bar a rifocillarsi di brioche e caffè caldo,
camminando come chi è reduce da una scalata alpina.
Assorto in questi pensieri,
l’impiegato guardò un’altra volta fuori dalla finestra: la pioggia si stava
calmando, il mondo stava rinascendo. La pianura non si vedeva ancora. La chiesa
sì, e il parroco faceva i soliti esercizi muscolari sul piccolo sagrato. Oppure
stava minacciando qualcuno? Non si capiva bene. L’impiegato s’avvicinò al vetro
bagnato e rise: il parroco stava brandendo un crocefisso contro il sindaco,
scacciandolo dalla chiesa. Ma che ci faceva il sindaco, nel suo pastrano
occhialuto, a quell’ora, in chiesa? Il parroco continuava a brandire il piccolo
crocefisso e il sindaco, come un Dracula impaurito, se la dava a gambe. Che
strano, pensò l’impiegato, forse il sindaco voleva recitate le lodi mattutine
ma il parroco aveva altri programmi e se l’era presa. Oppure il sindaco voleva
fare pace con il parroco, con cui non correva buon sangue da quella volta in
cui, durante una messa, il sindaco, o chi per lui, aveva smadonnato perché
qualcuno gli aveva pestato un piede. Il sindaco sosteneva che era stato il
barista, quello che si ubriaca puntualmente ogni sabato sera, ma il parroco non
gli aveva creduto e lo aveva cacciato dalla chiesa. Il sindaco aveva accusato
il parroco di averlo scacciato per questioni politiche e se l’era legata al
dito, anche perché giurava e spergiurava di non aver proferito sillaba in
chiesa, se non quelle necessarie a mostrare a tutti che stava pregando senza sbagliare una preghiera del Pater Noster o dell'Ave Maria. Il
parroco aveva invece confermato la propria versione. Ovviamente la cosa non era
finita lì.
Qualche giorno dopo il sindaco e
un assessore avevano cercato di vendicarsi dello sgarbo, scaricando sul minuscolo sagrato
della chiesa qualche chiletto di letame, fornito da un allevatore compiacente.
La mattina successiva il parroco, uscendo di corsa per fare la sua usuale oretta
di jogging, immerso nella nebbia che spesso avvolgeva il luogo da novembre ad
aprile, aveva “sciato” su quella bella striscia di letame, finendo bocconi
contro la base del monumento ai caduti. Inzaccherato da capo a piedi, si era
alzato brandendo i pugni non si sa se per bestemmiare o invocare la punizione
dell’altissimo contro qualcuno. Perciò, tra Stato e Chiesa non poteva correre
buon sangue in quel paese. Ci volle poco perché il parroco scoprisse i
colpevoli. L’allevatore amico del sindaco, infatti, aveva rivelato in confessionale
di aver fornito la materia escrementizia; si era tradito perché era stato
raggirato: credeva di parlare con un altro sacerdote della parrocchia e non con
il titolare. Il parroco invece, astuto, si era travestito da prete di colore:
in quei giorni, infatti, ospitava un prete congolese; assumendone le sembianze
in confessionale, e approfittando della penombra del giorno invernale, il
parroco era venuto a sapere la verità.
Rievocando quei fatti, l’impiegato
tornò a osservare il proprio ufficio con mestizia. Gli parve immenso. Desolato.
Gli armadi erano chiusi, bianchi e inutili. Il tavolo era ingombro di carte
sparse alla rinfusa. La luce sonnolenta del mattino sbadigliante oscurava la
stanza come una cortina di tenda annerita dal fumo. Serviva la luce
artificiale. Il neon tentennò con timidezza poi s’accese. L’impiegato allora si
diresse verso l’ufficio della collega. Il lunedì mattina non c’era mai lei,
faceva solo il pomeriggio. Certo, che strano che l’ultimo giorno di lavoro sia
di lunedì, pensò. Dovrebbe essere per legge il sabato, anzi, il venerdì. Ma
insomma.
L’ufficio della bella collega era
in ordine, lustro come la camera di una brava bambina. Le cartelle erano
impilate con precisione geometrica, e le scritte sul davanti (“chiedere
chiarimenti”, “da visionare con …”, “bilancio”, “pratiche in itinere”) erano
vergate con calligrafia dolce. Soprattutto quell’in itinere lo commosse. La lingua latina lo affascinava. Anche in
quel comune sperduto tra montagne alte. Ma non si trattenne oltre nell’ufficio
della collega. Gli pareva un santuario e pensò di compiere un sacrilegio.
D’altra parte, ogni luogo di lavoro ha una collega di cui tutti si innamorano
al terzo o quarto sguardo e di cui si disamorano al centesimo sguardo non
corrisposto. È matematico. L’impiegato gettò un’ultima occhiata colma di
malinconia alla macchinetta del caffè, chissà, pensò di bere un’altra
cioccolata a sbafo. Ma si fermò.
Il sindaco era entrato in
ufficio. Lo chiamò. Trafelato, paonazzo, con gli occhiali appannati e un po’ di balbuzie
da attacco di panico appena passato, disse:
“Il parroco dice che mi
scomunica. Anzi, in realtà ha detto che mi spacca il c…. Ma lo sistemo io. Ho
conoscenze lassù”, aggiunse, alzando il dito a salsicciotto verso il soffitto.
Aveva conoscenze dove, in archivio? O in curia? O in Vaticano? O direttamente
in paradiso? Boh. Il sindaco soggiunse: “Oggi ci penso io. Mi prepari
un’ordinanza di demolizione?”.
Cosa? L’impiegato si sedette al
computer obbediente, ma un po’ perplesso. Ricordava che è diritto del dipendente
rifiutare di compiere un’azione ritenuta illegale. Ma non aveva voglia di
storie quella mattina. Il sindaco dettò il testo dell’ordinanza di demolizione
del portico della chiesa. La volle pubblicare subito. Poi dichiarò che era solo
un pesce d’aprile (ma il primo del mese era passato da un pezzo), ma chiese
all’impiegato di tacere. Disse infine che avrebbe chiamato i due operai e che
li avrebbe fatti avvicinare con la ruspetta alla chiesa. E se non lo fanno, sentenziò,
li avrebbe costretti a farlo a calci nel sedere. Sembrava più tranquillo. Gli
occhiali non erano più appannati. Se ne andò fischiettando.
La mattina continuò indolente.
Pioveva meno, ma il cielo era ancora pitturato di grigio, come un quadro
impressionista visto alla TV in bianco e nero. L’impiegato osservò la piazza
(che in realtà era una semplice strada lastricata) e vide il matto senior e il
matto junior passeggiare sotto un ombrello viola. Il matto padre arrancava come
sempre, stringendo tra le labbra il solito sigaro vecchio di anni; indossava un
abito dell’anteguerra (la seconda) e scatarrava con destrezza, mischiando il
catarro tabaccoso e giallo alle gocce di pioggia che si posavano sul selciato.
In fondo, pensò l’impiegato, esiste un’eleganza anche nell’essere grezzo. Il
matto figlio camminava dinoccolato, come se stesse in allarme, come se qualcuno
avesse sempre pronta per lui una camicia di forza. Ma nessuno se lo filava, i
servizi sociali, appena lo vedevano, chiudevano a saracinesca la porta.
La visione dei due matti gli
diede una fitta di tristezza. La desolazione del luogo era davvero assoluta,
quasi mistica. Per fortuna il proprietario dell’albergo, il marito di quella
che ha sempre i tacchi a spillo anche quando nevica, fece entrare i due matti
nel bar, rimpinzandoli di pizzette avanzate del matrimonio di una settimana
prima, e facendo loro tracannare ettolitri di vino stantio. Non si fa niente
per niente, lassù.
L’impiegato rise e non rise.
Sbuffò. La giornata proseguì lieve e malinconica. I due operai, quando
arrivarono in comune alle dodici per timbrare (loro riuscivano a timbrare!!),
lo salutarono mesti. Poi dissero che piuttosto che demolire la chiesa,
avrebbero demolito la casa del sindaco. L’impiegato non ribatté nulla, a lui
sarebbe andato bene lo stesso, sempre qualcosa si demoliva. L’operaio anziano,
burbero nella sua tuta arancione, promise battaglia; infine si commosse fino
alle lacrime quando pensò che quello fosse l’ultimo giorno. Vagamente umorale,
era una brava persona. L’operaio giovane, invece, covava un sorriso dolce sotto
la zazzera nera arruffata. Parlarono di calcio e di donne. Di donne e calcio. Poi
del futuro, infine del passato. Il presente non esisteva, conclusero
filosoficamente. Alla fine i due operai se ne andarono a mangiare.
L’impiegato tornò nell’ufficio
della collega. Gli serviva una delibera preistorica. La cartellina rossa della
bellissima segretaria comunale (anche se al femminile “segretaria” suona male,
sa di donna disponibile a tutto per il capoufficio, fatto oltremodo singolare
dal momento che, in un comune piccolo, la segretaria è al tempo stesso anche il
capoufficio …) lo commosse. Si sentì inetto a intenerirsi davanti a una
cartellina rossa, peraltro orrenda. Ma pensò che nei giorni successivi lo
avrebbero distratto altre cartelline, altri fascicoli, altri caffè, altri
occhi, altri colleghi. E un segretario uomo. Senza ambiguità lessicali.
Era l’ultimo giorno, ma non
avrebbe voluto salutare nessuno. Era
l’epilogo. Perché fare il romantico vanamente? In fondo non finiva niente e
niente cominciava. Cercò allora, per distrarsi, di ubriacarsi di sensazioni
materiali. Il computer crepitava come al solito, la stampante nuova funzionava
e il fax pure.
Sì, non avrebbe voluto salutare
nessuno. Non amava la banale solennità dei piccoli passi della vita. Non amava
nemmeno le parole retoriche che quei passi, tristemente, suscitavano negli
animi umani. Non amava gli addii, che poi magari diventavano arrivederci ancora
più penosi. Non amava niente di niente. Si sarebbe voluto dileguare come
un’ombra che evapora al sole. Ma non poteva. C’era il pomeriggio. L’apertura al
pubblico pettegolo di quel posto. L’ultima timbratura, se la macchinetta avesse
funzionato. Insomma troppe Forche Caudine. E poi c’erano quei gesti banali ma
assidui che donavano una parvenza di normalità alla sua vita. La routine come
un’occasione per sentirsi vivo, per non perdersi. La noia come salvezza, un
gesto ripetuto mille volte che dà la conferma del proprio essere (o giocare a
essere) “qualcosa”.
La sera, poco prima dell’uscita,
la bellona del paese si presentò per un certificato. Era affascinante ma
triste. Due anni prima il marito era scappato con un ballerino cubano; ora pare
vivesse a l’Avana e facesse il lavapiatti, perché il suo ballerino lo aveva
lasciato per sposare una donna italiana conosciuta un’estate. Della storia
avevano parlato tutti in paese, naturalmente attraverso sussurri e dicerie, mai
in modo aperto. La bellona comunque aveva un ottimo davanzale e i capelli fini
e dolci, come quelli di una suora che ha perso la vocazione.
La giornata terminò. Non sembrava
vero. Spesso le ultime giornate hanno il sapore usurato di un vino andato a
male e l’odore bello e angosciante della novità. Al bar il sindaco e il parroco
stavano bevendo ubriachi, abbracciandosi come vecchi amici, inneggiando alla
vita e a una cosa che non si può rivelare. Non li divideva più alcun
crocefisso, ma li univa un bicchiere di vino nero. Gli operai avevano salutato
l’impiegato con effusioni da uomini, cioè senza commozione né abbracci, solo
con dolorose pacche sulle spalle e con promesse di vedersi ancora. Promesse da
marinaio, anzi, da impiegato di un ente pubblico.
Quando la sera l’impiegato timbrò
(la macchina, clemente, aveva ripreso a funzionare), salutando gli uffici vuoti
e le finestre sporche, il sole colorava di arancione la casa comunale. Il
tramonto anneriva la pianura là in basso e macchiava di giallo la corona di
montagne ancora innevate. Era proprio l’ultima sera. Il cielo finalmente
sgombro appariva tuttavia smorto, quasi mesto, come se facesse fatica a
riprendersi dalla sferzata di vento e pioggia del giorno appena trascorso.
L’impiegato se ne andò senza
salutare né i baristi della mutua del posto, né l’improvvisato pizzaiolo, né il
farmacista di una farmacia che non c’era. Non c’era quasi niente in quel paese.
Ogni tanto qualche cane randagio. Altre volte a essere randagi erano uomini e
donne sconfitti dalla propria miseria. Come in tutti in paesi del mondo, forse.
La bella collega, salutandolo, parve
commossa, ma forse aveva solo delle briciole di cracker negli occhi. Si
ripromisero di vedersi di nuovo. Senza briciole negli occhi, quella volta.
Una bellissima lettura Giuseppe. Grazie.
RispondiEliminaCiao Giuseppe,
RispondiEliminabello questo racconto, non mi spiacerebbe pubblicarlo.
Cercavo 'Parole dimenticate sul tram numero 23' Una tua poesia che mi è stata segnalata ma non sono riuscito a trovarla.
Se passi dalle mie parti fammi sapere ciao
franco