Conversazione in Sicilia, opera mirabile
di Elio Vittorini (1908-1966), uscì nel 1939 alla vigilia della Seconda Guerra
Mondiale. È un libro "nuovo" dal punto di vista della tecnica
letteraria, caratterizzato da un senso vivo di angoscia e di
sofferenza umana e politica (si veda l’Introduzione
all’edizione Rizzoli del 2006, nella quale sono citati brani dall’epistolario
di Vittorini nel 1937-1939). È una storia nella quale si trova un fragile
equilibrio tra realismo e simbolismo. Il dato reale (il viaggio verso la terra
natia, l’incontro con la madre, con l’ambiente povero della Sicilia profonda,
con la sofferenza dei suoi conterranei) è la base su cui è costruita una tenue allegoria, nella
quale i personaggi rimandano ad altre storie, pensieri, idee, e nella quale il
significato dei fatti e delle parole può essere inteso in modi differenti.
Conversazione in Sicilia è un libro in
cui le immagini, meglio delle parole e dei pensieri, rivestono un ruolo
primario; è un libro in cui la luce e la sua assenza hanno un’importanza
notevole; la scrittura è rapida, per pennellate
brevi, all’apparenza spoglia, come gli ambienti in cui si muove l’autore. È probabile
che vi sia, nello stile dell’autore, l’influenza della letteratura americana,
di cui Vittorini curò per Bompiani un’antologia nel 1941. Il libro si divide in
cinque parti, che seguono l’itinerario del protagonista. Vorrei parlarne quindi
rispettando questa divisione.
Parte Prima.
È l’inizio del viaggio: succede tutto in modo casuale. Quasi senza volerlo, il
protagonista, Silvestro, prende il treno e dopo quindici anni torna in Sicilia.
È inverno. Dopo Messina, l’incontro con un gruppo di siciliani diventa il primo
passo del percorso verso il recupero di un Sé perduto. Appare un personaggio,
il Gran Lombardo, che schiude al protagonista le porte della sua terra. Il Gran
Lombardo è un uomo austero, grande, saggio: egli pensa che un uomo non sia tale
se non compie “altri” doveri, oltre ai classici quali “non uccidere”, “non
rubare”, perché, sostiene: “[i doveri canonici] sono doveri troppo vecchi,
troppo vecchi e divenuti troppo facili, senza più significato per la coscienza”
(cap. VII). Depurata dai simboli, la prima conversazione in Sicilia potrebbe
significare questo: il popolo, nonostante il fascismo, possiede ancora nella
coscienza dei semi di ribellione volti al proprio riscatto.
Parte Seconda.
L’incontro con la madre, che si chiama Concezione, è senza emozioni, almeno
sulla pagina. Quindici anni sono passati dall’ultima volta che si sono visti,
eppure ogni gesto appare usuale, ordinario. Lei e il figlio mangiano assieme come succedeva
nell’infanzia, quando vivevano nelle case cantoniere, poiché il padre di
Silvestro faceva il ferroviere. Questa seconda conversazione scava a lungo nel passato; i ricordi diventano vivi, emergono
dal buio, e i sentimenti pungono ancora: la madre confessa che il marito
se n’è andato con un’altra donna, perché, ricorda, aveva sempre “bisogno di
altre donne per la casa e fare il galletto in mezzo alle donne… Sai che
scriveva poesie. Le scriveva a loro” (cap. XVI). Al ricordo del padre come uomo
venale e vigliacco (quando Concezione doveva partorire, lui non faceva altro
che piangere), si contrappone, nelle parole di Concezione, l’immagine del padre
di lei, un uomo validissimo verso cui lei prova un’ammirazione da donna. Silvestro
però vuole scavare ancora, nel profondo della loro storia, della loro anima
colma d’ombra. Ormai è grande, intende sapere tutto. E alla fine la madre gli
confessa che pure lei ha “tradito” il marito, è andata nel vallone con altri
uomini, addirittura con un povero viandante che le faceva pena perché, oltre
alla fame di cibo e acqua, aveva anche un’altra fame… Così la madre, che
apostrofava le amanti del marito definendole “vacche”, diventa per Silvestro essa
stessa una “vecchia vacca”.
Ma non c’è
moralismo in questo giudizio: esso è solo un modo per commiserare la
disperazione di queste donne costrette a servire sempre gli uomini, che siano mariti,
figli o estranei. “Queste donne!’, pensai … le donne in genere senza dolcezza
per la notte sulle mani, e forse, alle volte, infelici di questo, gelose e
selvagge per questo, non avere di odalische le mani come pur avevano il cuore e
la faccia e non poter tenere i loro uomini legati a loro con le mani” (cap.
XVIII).
Parte Terza.
Silvestro accompagna la madre a fare le iniezioni ad alcuni malati. La discesa negli
inferi è simboleggiata dalle case buie e misere del paese povero. Negli stanzoni
disadorni dove i due entrano, vivono donne, uomini e bambini, malati soprattutto
di povertà. Le scene sono tratteggiate a chiaroscuro: c’è il sole, ma i due
discendono le strade buie del paese, entrando in case nelle quali non si
distinguono gli ambienti, né i visi dei malati. Un pezzo d’inferno di miseria. Soprattutto
il capitolo XXVI è teso a descrivere il dramma di chi ha un malato in famiglia:
non si mangia più, e i ragazzini arrivano a divorare le gambe delle sedie. La simbologia
è forte: l’autore di certo non parla di una malattia tra le altre, bensì della
miseria e della passività che spesso paralizza il popolo, la classe operaia, la
cui sfiducia nell’avvenire è la peggiore malattia. Il giro delle iniezioni possiede
altresì un secondo significato: l’iniziazione erotica di Silvestro. Non dal
punto di vista puramente sessuale (l’uomo infatti è sposato), ma da quello del
contatto con le donne, contatto che la madre, che non ha potuto farlo a suo
tempo, ora vuol dirigere. Ella, quando deve fare le iniezioni alle donne, si porta
il figlio, decantandone le lodi. E il gioco di sguardi tra queste donne e il
figlio è intessuto di frasi non pronunciate, desideri repressi. Ma non è nella
passionalità e nella passiva sensualità che Silvestro cerca il proprio riscatto,
perché non ne ha bisogno. Finché le donne si presteranno a essere sottoposte, a
essere osservate come oggetti, nulla cambierà nel popolo. Egli rifiuta presto
il gioco della madre e abbandona il giro delle iniezioni.
Parte Quarta.
Il dolore per la sofferenza del mondo è il leit-motiv di questa parte, dove Silvestro
incontra alcuni personaggi che svolgono un ruolo doppio (sono presenze del
racconto e al contempo simboli di inclinazioni politiche). Per primo c’è l’arrotino,
Calogero, che si lamenta perché in quel paese non trova nessun oggetto degno di
essere affilato: “Coltelli? Forbici? Credete che esistano ancora coltelli a
questo mondo?” (cap. XXXIII), egli afferma. Secondo l’interpretazione più in
voga, l’arrotino intende in questo modo domandare se vi sia ancora spazio per
una rivoluzione, in quel paese, e in Italia. Perché il mondo è bello, ma
soffre, e se soffre va cambiato. Però non tutti la pensano a quel modo. L’incontro
con l’uomo Ezechiele, che ha una bottega di pellame, ne è un esempio: Ezechiele
è un idealista che ha coscienza della sofferenza del mondo, e nonostante questo non agisce, e
propone agli amici, per “consolazione” di andare a bere un bicchiere di vino. Poco
dopo, l’incontro con il panniere Porfirio, che sa che esiste il male nel mondo
ma propone come soluzione l’acqua pura, dimostra che la coscienza
rivoluzionaria è poco diffusa. Alla fine, la scena che si svolge nella taverna
dell’oste Colombo è desolante: i tre amici bevono, dimenticando i problemi del
mondo; e gli operai che stanno nella taverna cantano, bevono, scordando di essere
coloro che dovrebbero cambiare questo mondo. Silvestro stesso si ubriaca: e il
vino rende gli amici mesti, confusi: dov’è adesso il mondo offeso? Silvestro allora
esce nella notte gelida e medita: “pensai alle notti di mio nonno, le notti di
mio padre, e le notti di Noè, le notti dell’uomo, ignudo nel vino e inerme,
umiliato, meno uomo d’un fanciullo o d’un morto” (cap. XL).
Parte Quinta.
Si sta concludendo il soggiorno in Sicilia: adesso nella narrazione gli
elementi paesaggistici e narrativi diventano più sfumati, ammantati di un
simbolismo forse eccessivo. Silvestro vede in sogno il giovane fratello,
Liborio, morto in guerra: e la messa alla berlina della retorica del coraggio e
dell’eroismo è un esempio di lirismo, perché non si esaurisce nella polemica
politica, diventando un pezzo di poesia. Liborio ricorda di essere morto,
ma di non aver smesso di soffrire, e di continuare a farlo come fosse ancora immerso
nella neve e nel sangue. Perché Liborio continua a soffrire? “Per ogni parola
stampata, ogni parola pronunciata, per ogni millimetro di bronzo innalzato”
(cap. XLIII). Ecco l’attacco alla retorica fascista; ma non c’è solo la
politica in queste righe. Perché qualche pagina dopo la madre di Silvestro parla
di Liborio con affetto e orgoglio di madre, sostenendo che Liborio “amava il
mondo”. Nondimeno, il sentimento di una madre è un’emozione sovente fine a se
stessa, mentre Silvestro va oltre, prova a ragionare e grida, urla di rabbia, perché
Liborio non è morto vanamente né per essere ricordato con passivo dolore, ma, alla
stregua di tutti i poveri morti per una guerra che non li riguardava, egli “è
morto per noi. Per me, per te, tutti questi siciliani, per far continuare tutte
queste cose, e questa Sicilia, questo mondo … Amava il mondo!” (cap. XLV).
Alla fine,
Silvestro e gli altri personaggi incontrati (con delle comparse di corredo), si
ritrovano davanti alla statua di bronzo, monumento paesano ai caduti. Il simbolo
della retorica guerresca diventa qualcosa d’altro: è una donna ben fatta,
sensuale e, benché di bronzo, suscita l’ammirazione degli uomini che la guardano.
Tuttavia, non è di un monumento che hanno bisogno i soldati morti, né un paese può
risorgere se si limita a celebrare retoricamente il passato. Solo un salto in
avanti può salvare il paese; eppure le persone che, con Silvestro, guardando la
statua, sembrano non capire questa verità. Anche il rivoluzionario, Calogero l’arrotino,
si fa ammaliare dalle forme generose della statua di bronzo e dimentica che il
mondo è offeso, che soffre. Forse non è un vero rivoluzionario e se nemmeno gli
uomini che soffrono sanno rivoltarsi qual è il destino di questa terra? Non si
sa.
È l’epilogo. Silvestro
rivede la madre per congedarsi. Forse è deluso, da se stesso e dai suoi
compaesani. Il cerchio si chiude. Silvestro è tornato dalla madre, ha recuperato
una parte di sé, del proprio passato, l’ha guardato in faccia e amato di nuovo.
Ha rivisto il suo paese, la sua gente … ha colto in essa flebili segni di
speranza, svagate voglie di riscatto. La conclusione, forse per paura della
censura, rimane vaga… oppure, una conclusione vera è impossibile e l’autore non
la cerca nemmeno.
L’incontro con
Calogero, Ezechiele e Porfirio, il vino dell’oste Colombo, gli operai che
cantano ubriachi invece di lottare, l’incontro con il fratello morto, la “riunione”
ai piedi della statua di bronzo, sono avvenimenti realmente accaduti o frutto
dell’ebbrezza del protagonista? Non si sa bene. Che ruolo svolge l’ideologia
rivoluzionaria nella delineazione di questi fatti? E che ruolo gioca invece la
semplice ubriacatura? L’ambiguità è reale, intima, come scrive lo stesso
Vittoni nel capitolo I: “Questo era il terribile: la quiete della non speranza.
Credere il genere umano perduto e non aver febbre di fare qualcosa in
contrario, voglia di perdermi”.
Nelle ultime
due pagine la madre di Silvestro è intenta ad accudire un uomo anziano, con i
capelli bianchi, con il capo chino. Silvestro le vede solo di spalle ma
Concezione gli fa capire che si tratta di suo padre. Il protagonista non l’aveva
riconosciuto, dato che il vecchio di copre la faccia con una mano. L’addio è
privo di retorica. Silvestro saluta la madre, mentre asserisce che saluterà il
padre un’altra volta, non quella. E la conversazione finisce qui.
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