Questo strano ibrido politico … questa
specie di chimera mitologica che portava sul corpo i segni di una grande ferita
fisica … e morale – la vecchia accusa di abuso di minore - impersonava
compiutamente un paese sopravvissuto a un ventennio di sfascio e di decadenza,
ne era la rappresentazione umana, la misura del danno. Queste righe, poste
all’epilogo, rappresentano forse la spiegazione, il “sugo” del libro di Andrea
Pomella, La
misura del danno, Fernandel, Ravenna 2013. Il periodo appare oscuro, ma
in realtà chi, leggendo il libro, arriverà alla penultima pagina, sa che non
c’è nulla da spiegare, perché a quel punto della storia il lettore ha le idee
ben chiare.
La scrittura di Andrea Pomella è lucida, netta, senza barocchismi.Al principio,
l’alternanza tra il racconto in flash-back e una narrazione contemporanea rispetto
allo svolgimento dei fatti conferisce speditezza al libro. Poi il ritmo si
placa: la narrazione è svolta in gran parte sul piano del presente e lo sfascio
del protagonista della storia è lo specchio della decomposizione socio-politico-culturale
della società italiana. Pomella è un narratore onnisciente: sin dall’inizio,
infatti, ci avverte che la storia si concluderà con la rovina del protagonista,
Alessandro Mantovani, passato dal successo come attore belloccio delle fiction
leggere al successo come attore “impegnato”, insomma come attore engagé.
D’altra parte, gli elementi per presagire il tragico destino ci sono
tutti: l’avventura con la fan quindicenne, Beatrice Belfiore, ospita in sé, subito,
i germi della catastrofe; la ragazzina, infatti, ha raccontato alla madre che
avrebbe passato un week-end al mare nella casa di Sabaudia con l’attore, ma
aggiungendo che ci sarebbero state anche sua Francesca e la loro figlia,
Martina, amica del cuore di Beatrice. Una scusa che si rivelerà fatale, nel
momento in cui le due famiglie cominceranno a frequentarsi.
L’ambientazione
del libro è quella dell’alta borghesia romana di sinistra, che oscilla tra riti
da radical-chic e tentazioni operaiste di facciata. Questa aristocrazia intellettuale
è raramente autentica e appare incapace di appassionarsi realmente alle nobili
cause che vuole sostenere. Mantovani invece è un uomo di borgata che si è costruito
a fatica la strada verso il successo. È stato fortunato, bravo, cinico. Ora apparterebbe
a pieno titolo a quell’aristocrazia: è benestante, viene invitato alle feste in
lussuosi appartamenti, conosce architetti di grido, attori, scrittori,
giornalisti impegnati. Alessandro è famoso, ricco, ma è un isolato poiché
l’appartenenza all’aristocrazia intellettuale non lo soddisfa:
Mantovani capisce che in tale ambiente i rapporti sono leggeri, superficiali e
che spesso l’affabilità è solo di maniera. D’altra parte l’origine “borgatara”
rimane in lui come una macchiolina fastidiosa che nessun sapone può lavare. Lui
stesso la vive con sofferenza: la visione del padre anziano (Gino) e della sua
vita nell’angusto appartamento di periferia lo tormenta, come un passato oscuro
che egli tenta di esorcizzare invano. Il suo amore per il padre non si
manifesta mai; solo una volta, per caso, al supermercato, sembra possibile che
tra lui e suo padre un filo d’amore si possa riallacciare, ma l’animo ormai
sterile dell'attore impedisce ogni espressione autentica di sentimento: accadde in quel momento qualcosa di intenso
e di imprevisto … accadde che Gino, mentre teneva a mezz’aria con entrambe le
mani una scatola di uova da sei, sorrise timidamente, e l’arco delle
sopracciglia gli divenne un tutt’uno con le rughe profonde ai lati del naso e
della bocca. Era un sorriso luminoso e introverso, ma che esprimeva un momento
di gioia perfetta. Alessandro allora capì che suo padre era semplicemente
felice di ritrovarsi a fare la spesa con lui in un moderno supermercato di
Roma, correndo magari con i ricordi a un tempo lontano e perduto, un tempo in
cui erano ancora una famiglia unita … In quel frangente Alessandro sentì un
morso allo stomaco. Avrebbe voluto correre verso suo padre, lasciar cadere
tutta la sua apatia e abbracciarlo, semplicemente, aggrappandosi a quelle sue
spallucce strette in un perenne atteggiamento cifotico. Ma restò avviluppato in
quel pensiero e non si mosse.
I personaggi
del romanzo sono malati di anaffettività: i rapporti tra Alessandro e la moglie
sono freddi (la donna appartiene di famiglia a quell’aristocrazia
intellettuale), senza passione: nel libro i due non si baciano mai, né fanno
mai l’amore; la figlia, Martina, è scialba, affetta da acufene psicosomatico, persa
pure lei nel gorgo di incomunicabilità e indifferenza che travolge tutti. Lo
stesso vale per Beatrice: quando Alessandro si prenderà la sua verginità, non
ci sarà nessuna emozione, nessun piacere, ma solo un viso freddo, inespressivo.
Ecco forse qual è la reale misura del danno: il racconto di una generazione
inespressiva, prosciugata, nella quale l’emotività appare come un’esperienza
estranea, che non le appartiene.
Il racconto
precipita verso la catastrofe lentamente, goccia a goccia, come se ogni avvenimento
fosse guidato da un destino inesorabile. Le famiglie di Beatrice e Martina
cominciano a vedersi senza divenire troppo intime. Ad Alessandro la cosa
all’inizio procura imbarazzo, ma poi, di fronte al contegno (in apparenza)
tranquillo di Beatrice, egli si calma. Il destino però, prima di essere feroce,
è beffardo. Il padre di Beatrice gestisce un’attività in proprio e ha contratto
debiti a causa della crisi. Alessandro, senza nemmeno sapere perché, si offre
di aiutare l’uomo: si lega così sempre di più alla famiglia della sua fan,
rafforzando un legame che condurrà la sua vita allo sfacelo.
Cosa provare di
fronte a questi personaggi? Molta amarezza per il loro non riuscire a essere
mai persone autentiche, limpide, non dal punto di vista morale, bensì da quello
esistenziale. È loro connaturata una naturale tendenza a mantenere sempre una
distanza tra sé e gli altri, tra sé e l’emotività. Ma il lettore prova altresì
inquietudine, perché tali personaggi rappresentano figure caratteristiche della
società italiana di questi ultimi vent’anni di berlusconismo (tra l’altro
Berlusconi è ancora presente sulla scena politica italiana). Pomella descrive la
vicenda con distacco e con uno spirito di osservazione che definirei “clinico”.
Il fatto di anticipare al lettore il destino del protagonista sottrae al libro
un po' di suspense,
anche se Pomella è bravo a produrre ugualmente nel lettore una sensazione
d’attesa (mi viene in mente, come nobile predecessore, il Marquez di Cronaca di una morte annunciata, ma
persone più colte sapranno trovare altri esempi). L’autore non
giudica i personaggi, almeno in apparenza, ma li lascia agire verso il loro
naufragio, che è un destino inevitabile quando la propria esistenza ha perduto
qualsiasi calore ed emotività, o meglio, quando non sa più essere autentica.
Non c’è moralismo, né demagogia spicciola nell’autore. Il libro tratteggia
insomma una sorta di apocalisse minima sociale ed esistenziale: la speranza non esiste, oppure, quando una possibilità (remota) di salvezza, per i
singoli personaggi, appare baluginante da lontano, non è colta.
Non ci sono
emozioni gioiose in questa storia, né drammatiche, neppure quando a Fregene,
nella casa al mare dei genitori di Beatrice, viene fuori lo “scandalo”. Prima
di pranzo, la madre di Beatrice invita Martina a passare qualche giorno al mare
con loro, dichiarando di voler in questo modo restituire l’invito che la
famiglia Mantovani aveva fatto a sua figlia qualche tempo prima… questa frase
causa la sorpresa di Francesca che assicura di non aver mai invitato Beatrice
al mare. Poi ogni cosa precipita. Eppure Francesca non fa scene ed è forse
questa reazione a spiazzare Alessandro, anche lui chiuso nella morsa
dell’incapacità di agire. Se la moglie avesse fatto una scenata avrebbe probabilmente
costretto il marito a spiegarsi, a reagire a chiederle perdono, a spiegarle. Forse
tutto ciò non sarebbe servito a impedire la fine del matrimonio, ma quantomeno
ci sarebbero state parole umane tra di loro. Invece Alessandro tace, non chiede
scusa, né si giustifica: “lui aveva
scelto il silenzio, il che era equivalso a una specie di ammissione di colpa,
un atteggiamento che gli aveva precluso ogni spiraglio di salvezza”. La
mattina successiva Francesca comunica con spietata freddezza al marito che da
quel momento in poi non avrebbe voluto più saperne di lui e che lui, per
qualsiasi comunicazione, si sarebbe dovuto rivolgere al suo avvocato. Il
seguito della storia non va svelato, anche per non raccontare troppe cose del
libro. Alessandro sarà messo alla berlina a livello nazionale, sarà accusato di
stupro ma poi, pian piano, troverà dei sostenitori e la misura del danno sarà sempre
più lampante, evidente, desolante.
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