sabato 24 agosto 2013

CESARE PAVESE: "LA LUNA E I FALÒ"





L’ultimo romanzo di Cesare Pavese (1908-1950), La luna e i falò (1950) secondo me è il più sentito, il più completo, il più lirico. Nonostante lo stile di scrittura volutamente piano, di stampo quasi verista, il libro proietta il lettore in un’atmosfera onirica. Un sogno difficile, duro, come la realtà che il protagonista (un trovatello che ha sgobbato per anni nelle Langhe, poi emigrato in America per fare fortuna) ha vissuto da ragazzo e che ritrova, quasi intatta, quando ci torna, dopo vent'anni. Non sa dov’è nato: la sua famiglia adottiva l’ha preso dall’ospedale di Alessandria per via delle cinque lire che le passavano. Eppure quello è il suo paese, sulle rive del Belbo, e lui, dopo che è stato in America (“dove sono tutti bastardi, senza patria”), si rende conto che un paese ci vuole: “Così questo paese, dove non sono nato, ho creduto per molto tempo che fosse tutto il mondo. Adesso che il mondo l’ho visto davvero e so che è fatto di tanti piccoli paesi, non so se da ragazzo mi sbagliavo poi di molto … Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c’è qualcosa di tuo”.
Il tentativo del recupero dell’infanzia perduta fallisce. D’altra parte, l’autore sa che era inevitabile, vista la vita misera che ha vissuto e che vivono ancora in tanti nelle Langhe. Egli ritorna benestante, come uno che “ce l’ha fatta”, ma non per tutti è andata così. Glielo ricorda il suo vecchio amico Nuto, che è un po’ la coscienza critica del protagonista. Il suo realismo si oppone al tiepido spirito positivo dell’autore: “Tu ce l’hai fatta e più nessuno osa parlartene [del fatto che eri un bastardo]; ma quelli che non ce l’hanno fatta? Non sai quanti meschini ci sono ancora su queste colline. Quando giravo con la musica, dappertutto davanti alle cucine si trovava l’idiota, il deficiente, il vetturino. Figli di alcolizzati e di serve ignoranti che li riducono a vivere di torsi di cavolo e di croste”. Nel libro la miseria non è solo la mancanza della “roba”, bensì vivere un comune destino di tragedia, dimostrazione della fragilità dell’esistenza, della sua casualità, del fato avverso sempre in agguato, pronto a mangiarsi i ricconi e i poveracci senza distinguere tra di loro.
Il protagonista torna a vedere la prima casa dove era stato accolto, quella del Padrino: ora è abitata da un’altra famiglia poverissima, distrutta dalla fatica vana (una vita da mezzadri), dall’alcol, dalla rabbia. La sua famiglia, quella che l’ha preso da Alessandria nella casa della collina di Gaminella a un certo punto aveva dovuto vendere la cascina per andare a vivere in paese. Lui era stato mandato a lavorare in un grosso podere, la Mora, dove crescerà: “in Gaminella non ero niente, alla Mora imparai un mestiere”. Il suo patrigno muore in miseria, le sue sorellastre si sono sposate, una è morta giovane.
Ma pure la casa dove ha lavorato per tanti anni, quella un tempo florida e ricca, è stata praticamente spogliata di tutto. Il capofamiglia, il sor Matteo, è morto da tempo, sono morte anche le sue tre figlie (Irene, Silvia e Santina), quelle ragazze belle ed eleganti che il protagonista, quando era un ragazzo che sgobbava come un animale, ammirava a volte da lontano. Solo della più piccola, Santina, non si sa nulla, ma alla fine sarà Nuto a raccontare la sua storia.
Nel libro il racconto del tempo presente si alterna ai flash-back. Il tempo presente rivela al protagonista un paesaggio che non è cambiato. È passato il fascismo, è da poco finita la guerra, ma a sgobbare son sempre gli stessi, mentre i padroni ingrassano. Eppure Nuto gli dice che la colpa di quella situazione è proprio degli oppressi, che non sanno far altro, quando sono liberi, di andare a Canelli a spaccarsi i pugni, a ubriacarsi e bestemmiare, a buttare così il tempo. Nemmeno finita la guerra, ricorda Nuto, si poteva fare qualcosa. I partigiani della zona non erano autoctoni: “È tutta gente che si è messa il fazzoletto tricolore l’indomani. Qualcuno stava a Nizza, impiegato… Chi ha rischiato la pelle davvero, non ha voglia di parlarne”. E adesso, quando dalla terra spuntano i corpi dei repubblichini ammazzati, il paese se la prende con i partigiani, con i rossi, parroco in testa, dicendo che i rossi hanno ammazzato tanti poveri ragazzi che avevano fatto il loro dovere. Nuto non può fare nulla, nessuno reagisce a quei commenti: è una terra povera, ignorante, dice lui, figurarsi se si può parlare di coscienza di classe. Non è come a Genova, scrive il protagonista, dove i partigiani hanno addirittura un giornale. Nuto è amaro e realista: “In tutto quel quarantotto s’era fatto anche del male, s’era rubato e ammazzato senza motivo, ma mica tanti: sempre meno della gente che i prepotenti di prima hanno messo loro su una strada o fatto crepare… E siamo a questo che un prete che se suona ancora le campane lo deve ai partigiani che gliele hanno salvate, fa la difesa della repubblica e di due spie della repubblica”.
Tuttavia gli avvenimenti storici sono di contorno al libro, perché l’autore è in cerca di se stesso; questo "se stesso" non può essere trovato nel presente perché, come detto, le case dove è stato sono cambiate. Tuttavia in lui non c’è tristezza, ma, sembra, una serena accettazione non tanto del passare del tempo, bensì della ineluttabilità del destino. Lo si capisce all’inizio del cap. XXVI quando si legge: “I ragazzi, le donne, il mondo, non sono mica cambiati. Non portano più il parasole, la domenica vanno al cinema invece che in festa, danno il grasso all’ammasso, le ragazze fumano – eppure la vita è la stessa, e non sanno che un giorno si guarderanno in giro e anche per loro sarà tutto passato. La prima cosa che dissi, sbarcando a Genova in mezzo alle case rotte dalla guerra, fu che ogni casa, ogni cortile, ogni terrazzo, è stato qualcosa per qualcuno e, più ancora che al danno materiale e ai morti, dispiace pensare a tanti anni vissuti, tante memorie, spariti così in una notte senza lasciare segno”.
C’è pero qualcuno, sulle rive del Belbo, che è l’alter ego del protagonista. Si tratta di Cinto, un ragazzino sciancato che vive nella casa dove ha vissuto lui quando è stato adottato, in Gaminella. Cinto ha un padre, il Valino, ma sarebbe stato meglio fosse un bastardo: il padre è un mezzadro che si spacca la schiena per mangiare solo ceci e polenta. La madre è morta, il Valino vive (e dorme) con la cognata, e la madre demente. L’autore fa amicizia con Cinto, gli regala un coltellino, gli dice che oltre Canelli, oltre la strada ferrata, ci sono altri posti, c’è il mondo che lui ha visto. Ma sa che, se non fosse andato via di lì, forse anche lui avrebbe fatto la fine del padre di Cinto, povero, alcolizzato, misero. E anche qui il destino infelice colpisce, come in un’Antologia di Spoon River in prosa. Un giorno, il Valino, cieco di rabbia, ammazza la cognata, la madre, poi dà fuoco alla cascina, cerca Cinto per ammazzarlo (ma il ragazzo riesce a fuggire e a raggiungere Nuto e il protagonista), infine s’impicca nella vigna. In pochi minuti va in fumo un mondo, fatto di persone, ricordi, infelicità, miseria, come una ruota che gira senza posa e schiaccia, casualmente, chi capita sotto di lei.
È stato così anche per Irene e Silvia, le belle figlie del sor Matteo, il proprietario della Mora. Anche le due ragazze, che al protagonista apparivano come creature di un altro pianeta, soffrivano, piangevano. Come tutti, non importava che fossero ricche. “Anche Irene e Silvia erano gente come noi che maltrattata diventava cattiva, s’offendevano, ci soffrivano, desideravano delle cose che non avevano”. Tutte e due erano prese dai balli, dalle feste, dai giovanotti. Ne vennero tanti alla Mora. Poi un giorno Irene si prende il tifo, è in punto di morte, si salva, ma ormai è sfiorita. Silvia, invece, corre dietro a tanti uomini, in casa tutti sanno, tranne il padre, che ha fatto l’amore con molti. Alla fine, s’invaghisce di un cinquantenne di Milano che sta in albergo a Canelli e le promette soldi e fortuna. Quando l’uomo sparisce, Silvia lo cerca ovunque come una pazza, finché il sor Matteo la va a recuperare a Genova che fa la fame. La ragazza è incinta, il padre non lo sa e non lo saprà mai perché lo coglie un ictus che lo lascia mezzo paralizzato. Poi, un giorno, Silvia va ad abortire: “Tornò con gli occhi cerchiati e con la faccia di una morta – si mise a letto e lo riempì di sangue. Morì senza dire una parola né la prete né agli altri, chiamava solo ‘papà’ a voce bassa”. Rimane la sola Irene, che sposa un uomo senza scrupoli che la marita per fare un favore alla famiglia (“perché in giro si dice che quelle della Mora hanno fatto le puttane”) e si mangerà la dote in un anno, costringendo Irene a vivere in una stanza in affitto a Nizza Monferrato, sottoposta ad angherie di ogni genere.
Infine Santina, la bimba più piccola, la più bella delle sorelle, quasi coetanea del protagonista. Finalmente Nuto racconta tutto, si toglie il rospo. Santina a Canelli lavorava. Con la guerra si dice che tenesse compagnia alla Casa del Fascio. Poi, con la repubblica, sta con i partigiani nei colli attorno al Belbo, anzi, fa la spia per loro. Ma i partigiani scoprono che la ragazza fa il doppio gioco, che è in combutta con tedeschi e fascisti. Alla fine, ricorda Nuto che ha assistito alla scena, viene processata e fucilata dai partigiani del Baracca. Il protagonista chiede se può essere che il corpo di Santina riaffiori dalla terra, come quello dei tedeschi, dei fascisti, dei partigiani uccisi. No, non è possibile, racconta Nuto: “[il Baracca] fece tagliare tanto sarmento nella vigna e la coprimmo finché bastò. Poi ci versammo la benzina e demmo fuoco. A mezzogiorno era tutta cenere. L’altr’anno c’era ancora il segno, come il letto di un falò”. I falò, in langa, si fanno in autunno: si dice che ingrassino la terra, che la rendano fertile. Anche Nuto, il realista, ci crede. Quello di Santina, però, non fece bene alla terra. È l’epilogo di questa ricerca di un tempo perduto che si snoda sui piani del destino senza luce di un mondo campagnolo difficile, duro, eppure dotato, nella sua tragicità, di una sua fisionomia, di un significato, di un’esistenza.
Sembra di rivivere alcune poesie di Edgar Lee Masters: la donna morta di parto, l’altra presa a botte, chi morto in guerra senza nome. Non so se Pavese abbia tratto spunto da quel testo. Può essere. Oppure penso ad alcuni un versi di una poesia dello stesso Pavese, I mari del sud: “La vita va vissuta/lontano dal paese: si profitta e si gode/e poi, quando si torna, come me a quarant'anni,/si trova tutto nuovo. Le Langhe non si perdono”.
La luna e i falò è forse la summa del pensiero di Pavese: l’attaccamento per le Langhe, la sua terra d’origine (teatro di molti romanzi e poesie) convive in lui con l’attenzione alla grande letteratura americana, ai fatti del mondo. È un modo originale per mentenere le proprie radici, le quali salvano non dalla morte né dalla guerra, ma dalla perdita di sé, perché danno un colore ai ricordi e tengono viva l’anima anche a chilometri di distanza. Il simbolo è la trentennale amicizia con Nuto. La terra d’origine come prigione e rifugio. Già nelle ultime pagine del romanzo La casa in collina (1948) c’è questa intuizione, applicata, allora, alla guerra in corso: “Adesso che la campagna è brulla, torno a girarla; salgo e scendo la collina e ripenso alla lunga illusione da cui ha preso le mosse questo racconto della mia vita… Non è che non provi una stretta se penso a chi è scomparso, se penso agli incubi che corrono le strade come cagne … ma accade che l’io, quell’io che mi vede rovistare con cautela i visi e la smanie di quest’ultimi tempi, si sente un altro, si sente staccato, come se tutto ciò che ha fatto, detto e subìto, gli fosse soltanto accaduto davanti”. 
La luna e i falò è il capolavoro di Pavese. Lo ha scritto tra il settembre e il novembre 1949. Il 27 agosto 1950 si uccide a Torino. Ne Il mestiere di scrivere del 18 agosto 1950 troviamo queste parole, le ultime scritte: “Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più”.

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