L’utilitarismo di John Stuart Mill (1806-1873) prende le mosse dalla
riflessione dell'economista e filosofo Jeremy Bentham (1749-1827), seppure con parecchi distinguo.
Stuart Mill afferma che l’utilità consiste nella assenza di dolore, ossia nella
felicità e che per l’utilitarismo: “le azioni sono moralmente corrette nella
misura in cui tendono a procurare felicità, moralmente scorrette se tendono a
produrre il contrario della felicità. Piacere e liberazione dal dolore sono le
uniche cose desiderabili come fini” (L'utilitarismo, p. 241). Piacere e assenza di dolore
sono fini giacché contribuiscono al raggiungimento della felicità: “La
felicità non è un’idea astratta, ma un tutto concreto” (U, p. 285). Stuart Mill
assegna dunque al piacere e al dolore un ruolo sussidiario rispetto a quello
che Bentham riconosceva loro: essi possono essere utili al fine di stabilizzare
le abitudini che ci conducono ad agire, ma un individuo possiederà un carattere
definito e fermo solo quando comincerà ad comportarsi in modo autonomo rispetto alla pura
e semplice ricerca del piacere e alla sottrazione dal dolore.
Dal punto di vista della moralità pratica, la differenza
rispetto a Bentham riguarda la cosiddetta distinzione
qualitativa dei piaceri. Per Bentham i piaceri si differenziano in base
all’intensità, alla durata, ma, in generale, non vi appare esserci un piacere
migliore di un altro a priori. Ciò accade non perché non ci siano dei piaceri
più “raccomandabili” di altri, ma perché un piacere può essere valutato solo
conoscendo le circostanze in cui esso viene perseguito, oltre alla sensibilità,
alle disposizioni, alle intenzioni e al carattere di chi lo persegue (per
esempio una società di ubriaconi soddisfatti,
benché per Bentham sia qualcosa di negativo, per pura ipotesi non dovrebbe essere biasimata perché non si può imporre a tutte persone di passare il tempo immersi in
letture sublimi). Il piacere provato da una persona analfabeta non è inferiore
a quello di un intellettuale, poiché la cosa fondamentale è che l’atto da cui
esso nasce dia piacere, ossia utilità, all’individuo. Vi è dunque per Bentham
una questione metodologica, ma anche contenutistica che lo induce a preferire
una considerazione quantitativa dei piaceri: infatti, chi potrebbe prendersi
l’impegno di decidere quale piacere sia migliore di un altro? Bentham invece
ricorda che: “nessuno può essere miglior giudice di se stesso per quanto
riguarda ciò che gli procura piacere o dolore”.
Stuart Mill dal canto suo ritiene che le differenza tra gli individui
debbano far capire che “riconoscere che alcuni tipi di piacere sono più desiderabili ed hanno maggior valore di
altri, è perfettamente conciliabile con il principio di utilità. Sarebbe
assurdo supporre che la valutazione dei piaceri debba dipendere solo dalla
quantità, quando per valutare tutte le altre cose si considera sia la
qualità che la quantità” (U, p. 243). Da questa osservazione traspaiono due riflessioni
significative: la prima è legata alla convinzione dell’oggettività dei valori,
per cui, essendo l’utilitarismo una teoria del valore, il raffronto tra
soddisfazioni di diversa qualità non può essere demandato a una loro mera valutazione
soggettiva. La seconda convinzione, ancor più rilevante, è legata all’idea,
propugnata da di Stuart Mill, del carattere fondamentale dei confronti interpersonali di utilità, trascurati da Bentham, che mirava a un miglioramento delle
istituzioni che potevano determinare i bisogni primari dei cittadini. Secondo
lui, chiarita la natura di questi bisogni, sarebbe stato sufficiente riformare
le istituzioni affinché rispettassero e promuovessero questi bisogni, tenendo
presente che l’impulso alla benevolenza possiede un ruolo primario e innato nell’influenzare
la condotta della maggioranza degli individui. Stuart Mill, più interessato
alle relazioni tra i singoli individui, ritiene invece opportuno distinguere
tra i piaceri, operare dei confronti da di essi, e giunge alla conclusione che la promozione dei piaceri più lodevoli garantisce alla
società un accrescimento del livello generale della felicità: “È meglio essere
una creatura umana inappagata che un maiale appagato; meglio essere un Socrate
insoddisfatto che uno sciocco soddisfatto” (U, p. 245).
Per Stuart Mill la ricerca della felicità non segue una ferrea logica
calcolante, attenta soltanto alla quantità di piacere ottenibile: è chiaro che sovente
si sceglie un piacere all’apparenza meno intenso ma più sublime perché lo si preferisce, benché il puro calcolo
felicifico possa propendere per il piacere più intenso. La preoccupazione di Stuart
Mill è legata a un’idea di società in cui, contrariamente a quello che pensava
Bentham, non sia possibile affidarsi all’idea secondo la quale gli individui,
una volta capaci di comprendere ciò che è ottimo per loro, avrebbero scelto
progressivamente e senza difficoltà quei piaceri ottimi per loro. Bentham
ritiene che gli impulsi alla benevolenza e alla simpatia siano in gran parte
innati e pertanto (grazie a un governo attento alla loro promozione, ma anche capace
di non intromettersi troppo nelle scelte private dei cittadini) alla fine sarebbero
prevalsi. Stuart Mill pensa invece che vi debba essere una attenuazione del
liberismo in campo economico, perché non è possibile confidare nell’idea della
progressiva affermazione della benevolenza come pulsione innata, dato che le
dissennatezze dei ricchi non possono essere viste come residui di un’età al
tramonto destinata a far trionfare benevolenza ed altruismo:
nella
natura umana, la capacità di nutrire i sentimenti più nobili è il più delle
volte una pianta molto tenera, che muore
facilmente, uccisa non soltanto dalle influenze ostili, ma da una mancanza di
sostentamento… Gli uomini perdono le loro aspirazioni più alte… e si danno a
piaceri inferiori non perché deliberatamente li preferiscano, ma o perché sono
gli unici cui hanno accesso oppure gli unici di cui riescono ormai a godere”
(U, p. 246).
Nell’utilitarismo moderno l’idea della distinzione qualitativa tra
piaceri sarà abbandonata (e in genere sostituita da quella tra le preferenze);
di contro, permarrà l’idea milliana secondo cui chi ha meglio assimilato la
dottrina utilitarista è la persona che, grazie alla completezza delle
informazioni sulla società in cui vive e al cumulo di esperienze precedenti,
sarà in grado di comprendere quale piacere sia migliore e utilitaristicamente
più efficace per l’incremento della felicità complessiva: “il banco di prova
della qualità, il metro per misurarla a fronte della quantità, sta nelle
preferenze assegnate da coloro che sono meglio forniti di strumenti di
confronto, grazie alle opportunità offerte loro dall’esperienza ma anche grazie
alla loro abitudine all’autoconsapevolezza e all’autosservazione” (U, p. 248).
Per Stuart Mill dunque chi sperimenta i piaceri superiori, conosce
anche quelli inferiori ed è l’individuo più qualificato per affermare quali di
essi possono contribuire al meglio alla promozione della felicità sociale. Infatti,
ciò che è va promossa è la “maggior quantità di felicità complessiva; e se si può dubitare che un carattere nobile sia
sempre più felice degli altri grazie alla sua nobiltà, non c’è alcun dubbio che
egli renda più felici gli altri” (U, p. 247).
Stuart Mill si preoccupa altresì di rispondere ad alcune obiezioni
solitamente condotte contro la sua dottrina morale; queste pagine permettono
peraltro all’autore di precisare meglio la sua visione dell’utilitarismo.
La felicità, in qualsiasi sua
forma, non può essere lo scopo razionale della vita.
Il fatto che non sia possibile, come è naturale, che tutti siano
sempre felici, non significa che la felicità non possa essere uno scopo
razionale della vita. Certamente se con felicità si intende uno stato
permanente di esaltazione ed entusiasmo, è evidente che essa si verifica
raramente, sebbene il fatto che questi momenti si presentino indica che tale
felicità esiste. Tuttavia è fondamentale ricordare che “l’utilità… non
comprende soltanto il perseguimento della felicità ma anche la prevenzione o
l’attenuazione dell’infelicità” (U, p. 249). Stuart Mill ammette che la vita
ottimale è quella in cui i dolori siano pochi e rari, intervallati da rapidi
momenti di contentezza. Egli è cosciente dell’estemporaneità dei momenti di
esaltazione, i quali non possono essere il segno della felicità. D’altra parte,
il sentirsi felice dipende da tante cose, dalle aspettative che ognuno ripone
nella sua vita, da quello che può ottenere da essa in base alle sue condizioni
fisiche, economiche, alla fortuna. La cosa fondamentale è che ognuno non sia
privato della libertà di attingere alle fonti della felicità alla sua portata,
le quali peraltro sono molte e più una mente è elevata, più fonti di felicità
riesce ad individuare.
È d’altra parte evidente che nel mondo accadono parecchie calamità e
disgrazie alle quali è difficile sottrarsi ma che, secondo Stuart Mill,
potranno in gran parte essere attenuate, grazie al miglioramento delle
condizioni di vita dell’umanità. I mali del mondo non vengono dunque negati
dall’utilitarismo, tuttavia esso sostiene che “tutte le maggiori fonti della
sofferenza umana si possono in gran parte battere con la sollecitudine degli
uomini e con i loro sforzi; molte possono addirittura essere distrutte
completamente o quasi” (U, p. 253).
Gli uomini possono fare a meno
della felicità.
Stuart Mill riconosce la possibilità che un individuo sacrifichi la
propria felicità; tuttavia egli non assegna un valore assoluto a questo atto,
il quale è valido solo se aumenta l’utilità complessiva, ma se ciò non accade,
è un atto contro l’utilitarismo (pure Bentham ha dedicato molte pagine a
criticare l’ascetismo). Ciò significa che l’utilitarismo è in grado di
apprezzare il sacrificio ma, rispetto per esempio allo stoicismo, non lo valuta
sempre in modo positivo, in quanto è tale solo se incrementa le felicità.
“L’unica rinuncia di sé cui plaude è la dedizione alla felicità altrui, o a
qualcuno dei mezzi per ottenerla” (U, p. 255). La cosa fondamentale è riuscire
a contemperare la propria esigenza di felicità con quella degli altri membri
della comunità (“Nella regola d’oro di Gesù di Nazareth possiamo leggere tutto
lo spirito dell’etica utilitarista. Fare agli altri quello che si vorrebbe gli
altri facessero a noi, e amare il prossimo come se stessi, costituiscono la
perfezione ideale della moralità utilitarista”, U, p. 256).
L’utilitarismo pretende troppo
dagli individui, come se questi dovessero sempre essere santi.
Stuart Mill ritiene che l’etica abbia il compito di indicarci quale
dovrebbe essere la nostra condotta ottimale e pertanto, quando si indica un
modello, è normale che esso si configuri come non raggiungibile in modo
completo, ma ciò non significa che esso sia una chimera. Per l’utilitarismo è
l’intenzione quella che deve sempre
mirare all’incremento della felicità complessiva, mentre è chiaro che i motivi per i quali agiamo non sono
sempre volti a promuovere il bene universale, perché ovviamente un essere umano
non è un santo e non può ragionare in questo modo. “La grande maggioranza delle
azioni buone non è fatta a beneficio del mondo, ma a beneficio di singoli
individui, ed è di questi singoli benefici che è composto il bene del mondo”
(U, p. 258). Questo perché, una volta adottata la regola dell’utilitarismo,
agiamo comunque sempre all’interno di una ristretta cerchia di persone. In
altre parole, a livello ideale l’individuo deve aver acquisito il principio di
utilità e farsi guidare da esso, mentre a livello pratico è frequente che i
motivi per cui agisce siano particolari.
L’utilitarismo valuta solo le
conseguenze degli atti, non la qualità della persona agente e si mostra essere
una dottrina fredda ed insensibile.
Questa obiezione sarà riproposta più volte in chiave moderna, allorché
l’utilitarismo verrà definito come una forma di “consequenzialismo”. Stuart Mill
ritiene invece che per valutare in modo imparziale un’azione sia necessario non
farsi influenzare dalle opinioni concernenti la persona che compie l’atto:
anche un uomo cattivo può compiere una buona azione. Tuttavia, nel lungo
termine, sono proprio le azioni buone la migliore prova di un buon carattere.
L’utilitarismo non riconosce il
ruolo di Dio nel determinare le azioni umane.
Stuart Mill è molto attento nel respingere quest’ obiezione; egli
ovviamente non nega l’esistenza di Dio, ma vuole proseguire l’opera di Bentham
e dunque emancipare l’etica da sovrastrutture di carattere religioso o
metafisico. Solo in questo modo essa può diventare autonoma e indicare all’uomo
regole di condotta le quali trovano in se stesse la propria giustificazione.
Bentham stigmatizzava peraltro l’idea di attribuire un’origine divina alle
regole morali, poiché ciò le avrebbe rese non criticabili ed immutabili.
Tuttavia, se i dettami della religione appaiono contraddire l’utilitarismo, è
la religione a mostrarsi sbagliata, dato che sono le verità rivelate che devono
passare al vaglio della moralità. Scrive Bentham: “I dettami della religione
coinciderebbero in tutti i casi con quelli dell’utilità, se l’Essere che è
oggetto della religione fosse ritenuto benevolo quanto è ritenuto saggio e
potente, e se le nozioni che si hanno sulla sua benevolenza, allo stesso tempo,
fossero altrettanto corrette quanto quelle che si hanno sulla sua saggezza e il
suo potere. Sfortunatamente, però, questo non avviene”.
Stuart Mill riconosce il grande valore ideale della figura di Gesù
Cristo (cfr il saggio La libertà:
“penso sia un grave errore cercar di trovare per forza nella dottrina cristiana
quella completa regola di vita che il suo autore intendeva sì sancire e far
valere, ma solo in parte darci in modo esplicito” U, p. 133) e ritiene che molti dettami della
religione si adattino alla perfezione all’utilitarismo, la quale per questi
motivi è la dottrina più religiosa perché, come Dio, vuole assegnare la
felicità agli individui. Egli raccomanda, di fronte alla religione, un
atteggiamento di partecipato e sano scetticismo: le sacre scritture possono
fornire certamente modelli di eccellenza morale che, attraverso
l’immaginazione, noi possiamo fare nostri, ma alla fine “La credenza nel
soprannaturale non può più essere considerata una condizione necessaria per
conoscere ciò che è giusto e sbagliato nella moralità sociale per fare il bene
o astenersi dal male” (cfr. Tre saggi
sulla religione).
Non è possibile, prima di agire,
calcolare con esattezza quanta felicità possa scaturire dai propri atti.
Stuart Mill sostiene infine che questa obiezione non tiene conto del
fatto che nessuno di noi agisce senza essere a conoscenza delle esperienze
accumulate in precedenza, sia da lui stesso, sia da tutti gli individui che lo
hanno preceduto; pertanto, nessuno agisce in condizioni di totale solitudine,
poiché per esempio si può fare affidamento al principio di utilità, il quale
non va ogni volta ridefinito e dimostrato.
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