Gaffi Editore, Roma, pp. 416
(www.gaffi.it)
Un libro che racconta un fatto
mai avvenuto rendendolo verosimile, è un libro riuscito. L’immaginazione
dell’autore va oltre la realtà restando ancorata ad essa: non partorisce un
racconto di fantascienza, né di pura fantasia. Non occhieggia all’utopia, non
disegna mondi irreali, ma riesce a descrivere una realtà “altra” assai simile a
quella vissuta ogni giorno, tanto da creare confusione nel lettore che, a
volte, pensa che quel che legge sia avvenuto sul serio. L’autore, d’altra
parte, si destreggia quasi sempre con successo tra diversi generi narrativi: il
reportage (soprattutto all’inizio, prima degli attentati), il thriller, il
romanzo sentimentale e vagamente passionale, il fantasy, quella che si potrebbe
definire una spy-story e, in alcune battute, il saggio politico. Nelle ultime
pagine poi la stessa scena è presentata dal punto di vista dei diversi personaggi che la animano,
con una tecnica che mi ha fatto venire in mente alcune sequenze
di Jackie Brown, film di Quentin
Tarantino del 1997.
Il fatto che caratterizza il
racconto è questo: quattro terroristi arabi si fanno saltare in aria in quattro
diversi punti di Milano. Successivamente, l’autore compone una sorta di
“romanzo storico immaginario” raccontando la vicenda politica generale dal
punto di osservazione di un gruppo di individui coinvolti nelle esplosioni. I
fatti si snodano attraverso una felice tensione tra il fatto politico che
coinvolge l’Italia e la vita privata dei personaggi (Tommaso, Andrea, Agata e
Teresa quelli più in vista). All’inizio nessun di loro è capace di vivere
prescindendo da quel che è accaduto, perché quasi tutti compiono (o progettano
di compiere) scelte a cui, senza gli attentati, non avrebbe mai pensato. Tuttavia
la loro vita non cambierà radicalmente: nonostante l’intenzione espressa di
imprimere una svolta alla propria esistenza (che le due protagoniste femminili
ammantano di un’aura idealistica), essi, gradualmente, rientreranno nell’alveo
di un’artificiale normalità. O meglio, le loro vite muteranno in parte, ma
secondo una direzione diversa da quella progettata appena dopo gli attentati. Agata e
Teresa imboccheranno addirittura una
strada di successo mantenendo la loro precedente occupazione, ben lontana
dall’essere qualcosa di rivoluzionario.
In altre parole, i protagonisti non
cambiano granché di se stessi né della loro vita; ogni velleità rinnovatrice è
presto abortita di fronte a una realtà che da decenni li ha coinvolti in
meccanismi più grandi di loro e ai quali, per ignavia, indolenza o ambizione,
non sono in grado di sottrarsi. Nessuna palingenesi è alle porte. La loro resa
avviene dopo flebili tentativi di reazione. Gli attentati, sospendendo per
qualche giorno l’ordinario fluire dell’esistenza, hanno disegnato l’illusione
di poter divenire il grimaldello per scardinare una vita scontata e priva di
calore ideale. Ma si è trattato di sensazioni durate qualche giorno o qualche
settimana, perché la vera reazione al terrorismo appare concretarsi nel tornare
a vivere come se niente fosse avvenuto, ponendo fine a quell’attimo di sospensione
dell’ordinario corso delle cose dovuto agli attentati.
L’unico che non progetta di
cambiare nulla è il protagonista principale, l’antiquario Tommaso: la sua resa
è lampante sin dall’inizio, coronata da riflessioni vagamente filosofiche sulla
decadenza del cristianesimo e sulla giovinezza dell’Islam: “Il cattolicesimo
cura ormai solo le anime dei morti. Non prospetta più un futuro migliore, non è
più né un ideale né un’ideologia […] l’islam sogna ancora di modificare la
società. Quella che c’è non gli piace e vuole cambiarla, con un’idea romantica,
molto retrò. Insinuano elementi arcaici nella nostra modernità. E vedrai che
prima o poi cederemo anche noi. Per combatterli finiremo con il rappresentare
la nostra arcaicità – mandando affanculo gli ultimi cinquant’anni”. Il suo
coinvolgimento nei fatti, con tanto di convocazione in Questura per
testimoniare, ha l’effetto di acuire questa sua remissività, che non scompare
nemmeno di fronte agli evidenti soprusi che, in nome della lotta al terrorismo,
vengono compiuti.
Ma perché non cambia nulla? Forse
perché la “salvezza” contro un terrorismo che colpisce indiscriminatamente e
ovunque consiste nella continuazione di una vita “normale” e nella
perpetuazione di un modello di società che ha perduto fede nella simbologia
religiosa. Questa società ha, infatti, creato dei meccanismi (economici,
sociali, finanche esistenziali) operanti prescindendo dai singoli individui,
essendo ormai in grado di funzionare anche di fronte a un’emergenza politica e
sociale gravissima. Di contro, se l’Occidente scatenasse apertamente la guerra contro il terrorismo, decreterebbe la propria
fine, perché l’obiettivo dei kamikaze non è la distruzione fisica
dell’Occidente, bensì il fatto che la civiltà figlia dell’illuminismo tradisca
se stessa, la propria struttura democratica. Queste convinzioni sono
accompagnate dall’idea auto-assolutoria della completa estraneità dei
terroristi rispetto alla società civile occidentale.
Peccato che le cose non siano
così semplici. Infatti, i terroristi sono di origine araba, ma nati in Italia:
sono stati emarginati dalla società che li avrebbe dovuti ospitare. Da lì è
stato facile essere coinvolti nella “ideologia” del jihad, l’unico simbolo di
riscatto che è apparso loro. Benché schematica, la diagnosi appare valida poiché
getta luce su un problema che le società occidentali trascurano: il destino dei
cosiddetti immigrati di seconda generazione, coloro che sono nati in occidente
da genitori emigrati.
Ma il libro di Fernando Coratelli
non è un saggio di politologia, dunque questo aspetto è trattato di sfuggita.
Più spazio ha invece un altro tema, concernente la guerra occulta che l’Occidente,
segnatamente gli Stati Uniti in collaborazione con i servizi segreti dei paesi
“alleati”, conduce contro il terrorismo. Un personaggio del libro è un agente
CIA “dormiente” che, tollerato alle autorità italiane, tortura un sospetto
fiancheggiatore dei terroristi fino a ucciderlo senza pentimento: “Basta poi
farli sparire e fingere che vivano ancora chissà dove, e utilizzare i loro nomi
per giustificare altre azioni e, perché no, spingere a nuove guerre. Tutto
questo lo fa in nome della democrazia, dell’occidente, con convinzione”. In
fondo però anche questo modo di reagire è figlio di una resa, di una totale
sfiducia nella democrazia, ossia nell’Occidente stesso.
Poco prima della fine del libro, Tommaso e
Agata sono al ristorante e ascoltano alcuni i versi della canzone Road to Peace di Tom Waits: And if God is great/ and God is good/ why
can't he change the hearts of men?/Well maybe God himself is lost and needs
help/Maybe God himself he needs all of our help/Maybe God himself is lost and
needs help. Sono parole che dovrebbero indurli a riflettere:
rispecchiano un’idea che, dopo gli attentati, Agata in particolare ha
sostenuto. Ma adesso non più, l’emergenza è passata: anche se la ragazza ha
ancora in testa di fare qualcosa per cambiare, la sua resa è alle porte e
nessun idealismo turberà la sua discesa verso l’accettazione della (nuova o
vecchia) realtà. Tommaso invece non si è mai illuso: “Mica questi si
imbottiscono di tritolo per instaurare in Italia o in America uno stato
teocratico di stampo islamico […]. Siamo noi la creatura che ha bisogno del
terrorismo per avere ancora senso di esistere – l’ultimo senso. L’Occidente non
accetterebbe mai di essere conquistato o sottomesso – se deve perire, vuole
farlo attraverso l’autodistruzione”.
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