“Le tende sono alte davanti ai cancelli spalancati,
i coperchi delle bare vegliano a fianco degli usci,
i paioli bollono sui focolari all'aperto.
In migliaia, vestiti di nero, riempiono
le strade sterrate. Le ruspe sono al lavoro:
sterminati cimiteri al posto di sterminati pascoli”.
Il pianto sulla
distruzione di Beslan
è forse il punto più lirico della raccolta di poesie di Alba Donati, Idillio con cagnolino, Fazi Editore 2013. La
poetessa, smentendo alcune convinzioni sull’impossibilità per la poesia d’oggi
di occuparsi dei fatti della vita, crea struggenti versi per ricordare i
bambini morti a Beslan
nel settembre 2004. Lo stile del componimento riprende il racconto epico,
rifacendosi a un testo russo del XIII secolo, e la commistione tra stile
“antico” e fatto di cronaca moderno funziona a meraviglia. Questo significa,
tra parentesi, che le strutture poetiche vivono al di là della temporalità, e
che la riproposizione di forme all’apparenza “fuori moda” può avere successo se
sorretta da una tensione lirica intensa, da una notevole perizia e
consapevolezza poetica. Mi viene in mente Pasolini che, ne Le ceneri di Gramsci, impiega la terzina di impronta dantesca in
modo mirabile senza anacronismi.
Il pianto sulla
distruzione di Beslan
possiede un tono epico accorato che non diminuisce né quando l’autrice
trasfigura la cronaca rendendola in poesia, né quando i versi sfiorano il tono
dell’invettiva politica (“La comunità internazionale tace/.Le questioni
petrolifere sono taciute,/i morti seppelliti in terra cecena sfiorano/gli
oleodotti e i gasdotti, anch’essi...). La polemica politica e sociale non
oscura la viva materia poetica e non impedisce al lettore di rievocare quei
fatti terribili con una pietas
vivissima; siamo tutti vittime di qualcosa cui non sappiamo dare un nome: il
disagio dell’uomo d’oggi, il disagio di ognuno di noi, è espresso da questi
versi: “Difficile capire dove sia giustizia dove c’è solo morte/e dolore, e
pianto”.
La
presenza dei bambini nei versi della poetessa è costante e mai retorica. La
realtà viene filtrata attraverso i loro occhi ingenui eppure avidi di conoscere
(splendida in questo senso Alberi di Natale venata, mi pare, da
reminiscenze pascoliane); intendiamoci: il dolore, il male, il lupo che mangia
Cappucetto Rosso, non risparmia i bambini, naturalmente. E le favole non
servono per occultare la realtà. Gli occhi dei bimbi vedono il male, ma spesso
lo filtrano attraverso la fantasia grazie a una mente ancora in parte vergine,
capace di illudersi a fin di bene: “Il lupo soffia una volta, due volte/tre
volte – ma inutilmente! - dici tu/come se sapessi cosa significa quel resto/di
nulla che è ogni gesto violento/di ogni essere umano che soffia/contro un altro
essere umano” (Il lupo). Chissà, magari il lupo stesso è a sua volta una
vittima: è violento perché non conosce altra forma di comunicazione, di
esistenza. Comprendere questa cosa non significa perdonare nessuno, né negare
la responsabilità del violento, bensì andare oltre pregiudizi, luoghi comuni,
false paure. L’uomo in sé e per sé è il solo protagonista: come il fuscello di
Pascal egli, benché preso nel vortice della tempesta, benché debole, benché
sempre sul punto di soccombere, può trovare qualcuno che lo possa salvare, come
accade nelle fiabe che sono la rappresentazione fantastica del reale. Se è vero
che nel mondo d’oggi la violenza è tremenda, non bisogna scordare che esiste
anche l’empatia, il prendersi cura degli altri (il famoso I care di don Milani): “Salire sul palco degli dèi/per fermare gli
elementi/per metterlo al riparo/su una piccola seggiola” (Il lupo tremante).
Affidarsi
allo sguardo dei bambini, alla loro capacità di arricchire la realtà,
inventando un “reale” che appartiene solo a loro, è una fortuna per gli adulti
d’oggi. La sensazione di spaesamento è fastidiosa, insinuante. I bambini, che
sembrano vivere in una temporalità “altra”, fiabesca, inconsapevolmente
poetica, possono regalare la forza ai “grandi”: “La gioia … spinge la luce da
dentro/i nostri corpi a uscire fino sopra i nostri visi./Tu con il tuo libro
‘da grande’, io con il mio libro/da grande./Tu con la tua risatina da
bambina./Io con la gioia” (Idillio con
cagnolino). Il tempo dei bambini diventa allora il nostro, un tempo che non
nasconde il male ma cerca di guardare anche oltre questo dolore infinito che
impasta di sé l'esistenza: “Avvia tu, mio tesoro,/questo lento, lentissimo
tempo/che ci contiene” (Piccola idea chiara).
Nella
raccolta i toni malinconici non scadono mai nella nostalgia senza speranza. La
malinconia si stempera grazie al legame generazionale salvifico e confortante,
che fa crescere nella bellezza di un ricordo destinato a spegnersi ma non a
scomparire:
Dormite insieme
nello stesso letto
con i vostri
ottant’anni di differenza,
del mondo non
sappiamo più niente:
non ascoltiamo i
telegiornali
né tantomeno
compriamo un giornale,
abbiamo scelto
il silenzio, l’accadere del giorno,
lo spazio
intorno alla nostra casa.
È
la prima strofa della splendida e commovente di Notte di San Lorenzo, dove il rapporto generazionale tra nonna e
nipote viene raccontato dalla madre. La famiglia diventa un mondo chiuso, un
bozzolo che protegge e vivifica: “noi veleggiamo tutta la notte, tu alla
ricerca della Strega Malefica/io di te, e tua nonna di te, di me, e del suo
primo/amore”. Questi versi sono un appello alla forza dei legami indissolubili
che vivifica l’uomo in una famiglia unita, che vive di ritmi antichi, di
rituali di cui non si ricorda più l’ideatore, di consigli dati con amore e
senza paternalismo: “…come ci sia questo spazio intermedio/tra la vita e la
morte in cui si cancella tutto il tempo,/e si stia inermi come neonati nelle
braccia di chi ci ha amato” (Fernando).
D’altra
parte, i ricordi sono destinati a disperdersi come pezzi di esistenza, come
immagini di istanti perduti per sempre. Ma la salvezza esiste. Basta saperla
cogliere. A volte, certo, è più difficile, perché quando dobbiamo affidarci
solo alla nostra memoria, labile di per sé, non siamo più certi di nulla. Una
fotografia smarrita non restituisce più alcunché: cercare di riprodurla in
altri luoghi è impossibile, poiché ogni fotografia rende immortale un istante
che è unico, che mai prima d’allora c’era stato e che mai più esisterà. È un
attimo irripetibile e ci vuole passione e fortuna e attenzione per coglierlo:
“Perché c’è una perfezione nell’aria/che qualche volta accade per caso./Qualcuno
non la vede e qualcuno la disprezza./Eppure ci sovrasta e accende
meraviglie/agli angoli di vecchie fotografie” (C’era una foto).
Ci
sono tanti cammei in questo bel libro: le scintillanti poesie dedicate a Cesare
Garboli, maestro nobile della poetessa (e che maestro!), nelle quali la
gratitudine non conosce le barriere della morte (come scrisse Maria Cvetaeva
quando morì Rilke, e come ripete Alba Donati: “Se sei morto la morte non
esiste”). Dolcissimo è poi il ricordo di Enzo Siciliano (“non ho mai potuto
dirti che prima di conoscerti/ti conoscevo/come succede in casa, tra la pareti
domestiche,/con le figlie e le madri”). L’omaggio a queste figure, unitamente a
quelle di Luzi, Bigongiari, Pampaloni, Baldacci, Garin, Gadda, diventa
l’omaggio verso un’epoca che sembra chiudersi e che ha avuto in Firenze
(“Povera città senza mani!”) il simbolo, la sua casa, la sua dimora. Eppure
anche qui la poetessa non scade nel lamento senza speranza. Come in altre
poesie, il momento della tristezza, l'abbattimento non conclude nulla, ma si
accompagna a una speranza che non appare immotivata, né consolatrice, bensì
come qualcosa di cui è intrisa, forse, la vita stessa dell’autrice e di tanti
di noi. È impossibile citare tutto e la sola cosa che si può dire è che il
libro va letto e gustato, con calma, direi assaporato. Per fortuna la poesia è
viva, e libri come questo sono “utili” sia per chi legge poesie sia per chi si
diletta a scriverle.
Vorrei
citare infine per intero questa poesia, che s’intitola Meridiani, la cui terzina finale mi sembra affine a L’infinito di Giacomo Leopardi:
La sera ti
guardo dormire:
la bellezza
degli occhi meridiani
adesso chiusi e
la bocca-parola
che respira dolcemente.
Fuori la notte
cittadina fa ruotare gli astri lenti:
Urano il pianeta
dei cambiamenti
e Nettuno,
piccolo e roccioso,
dove nubi e
vento corrono per notti
e giorni
spettrali, Nettuno,
che presiede
lente metamorfosi
e infine Plutone
lontanissimo.
A questa musica
identica tra te, il tuo respiro
e il cielo, a
questo passo comune
per sterminati
spazi, io mi riposo.
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