Il molatore di pietre (The Stone Grinder)
Penelope
lavorava con qualche garanzia di un piano.
Tutto
quello che disfaceva di notte
poteva
far avanzare di giorno.
Io,
molo le stesse pietre da cinquant’anni
e quello
che disfo non è mai la cosa che ho fatto.
Senza
ricompensa come l’oscurità allo specchio.
Preparo
la superficie a sopravvivere a cosa le viene sopra –
cartografi,
litostampatori, tutte quelle linee e inchiostro.
Io
ho ordinato le opacità e loro hanno aruspicato.
Per
loro era un nuovo inizio e una lastra vuota
ogni
volta. Per me, era chiudere il cerchio
come
l’onda piccola perfetta in quiete.
Così.
Per commemorarmi. Immaginate le facce
strappate
dalla faccia di una pietraia. Praticate
il
coitus interruptus su una pila di
vecchie litografie.
La lanterna di biancospino
Brucia
fuori stagione il biancospino invernale,
mela
degli spini, piccola luce per piccola gente,
che
non vuole nulla di più da loro se non salvare
dall’estinzione
il lucignolo della dignità,
senza
doverli accecare d’illuminazione.
Ma
talvolta quando il fiato s’impiuma nel gelo
prende
la forma itinerante di Diogene
Con
la sua lanterna, alla ricerca di un uomo giusto;
così
tu finisci per essere scrutato da dietro il frutto
che
lui regge ad altezza d’occhi appeso a un tralcio,
e
recedi davanti al suo nocciolo e polpa compatti,
al
graffio a sangue che vuoi ti provi e renda mondo,
alla
maturità beccata che ti esplora, e passa oltre.
Scoprire
un poeta è una fortuna. Perché significa arricchire la propria conoscenza,
certamente; ma anche perché significa ampliare l’esperienza del mondo, che
viene filtrata e abbellita dallo sguardo del poeta. Seamus Heaney (1939-2013)
se n’è andato pochi mesi fa. L’altro giorno ho comprato la sua raccolta La lanterna di biancospino, a cura di
Francsca Romana Paci, Guanda, Parma 2007 (The
Haw Lantern, pubblicata nel 1987). Dalle prime letture emerge in me, d’istinto,
un’ammirazione per questi versi all’apparenza secchi, definitivi, eppure così
ricchi di immagini dense. È come se il poeta intuisse una specie di verità, ma
essa gli rimanesse oscura. L’immagine di Diogene nella poesia che dà il nome
alla raccolta è in tutti i sensi illuminante; nell’altra poesia, Heaney si
paragona a un molatore di pietre, come se le parole fossero sassi da scolpire. O
si paragona a Penelope, che disfaceva di notte la tela tessuta di giorno. Tuttavia,
Penelope aveva un piano, uno scopo, mentre il poeta no. Egli brancola nel
buio e anche quando la poesia è stampata, egli avverte sempre la mancanza di
qualcosa.
Ma
proprio l’arte della poesia è, per lui la sola salvezza, come per l’uomo “comune”
la salvezza è l’arte, quale che sia. Nel brano Un’arte diurna (A Daylight
Art), che ha come protagonista Socrate, leggiamo questi versi splendidi:
Esercita
l’arte, la quale arte lui [Socrate] fino ad allora
aveva
sempre inteso voler dire la filosofia.
Felice
l’uomo, dunque, con il suo dono naturale
Di
esercitare l’arte giusta fin da principio –
la
poesia, diciamo, o la pesca; e notti senza sogni;
il
cui panorama del profondo si sollevi e passi
come
luce diurna attraverso l’occhio di canna o pennino.
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