La raccolta Perché leggere i classici, Mondadori, Milano 2013 (senza punto
interrogativo finale, forse perché si tratta di un’affermazione legata
all’idea, ritenuta acquisita, secondo cui i classici devono essere
letti) di Italo Calvino (1922-1985), è oramai ritenuta, credo, a sua volta un
“classico”. Il volume, pubblicato nel 1991, non contiene meditati saggi di critica
letteraria, bensì una serie di interventi apparsi su quotidiani, riviste, oltre
a scritti introduttivi a opere celebri, che Calvino ha redatto nel corso della
sua esistenza (da Conrad a Stendhal, da Plinio il Vecchio ad Ariosto, da Borges
a M. Twain, da Galileo a Voltaire, da Diderot a Dickens, da R. L. Stevenson a
Henry James, fino a Gadda e Montale, per citarne alcuni). Calvino illustra gli
autori e le loro opere dando l’impressione di divertirsi molto a farlo: i suoi
consigli verso il lettore non sono emessi ex
cathedra, bensì con l’animo appassionato e divertito di un uomo che ama la
lettura e che si rivolge al lettore con il sorriso, arrivando talvolta (è il
caso della Historia Naturalis di
Plinio) a consigliare di saltare alcune parti per godere meglio della finezza
dell’opera.
Tra le mirabili pagine che
Calvino scrive, mi piace qui ricordare, tra le tante, quella dedicata al
celeberrimo romanzo La Certosa di Parma di
Stendhal: “quanti giovani riceveranno il colpo di fulmine fin dalle prime
pagine, e si convinceranno d’improvviso che il più bel romanzo del mondo non
può essere che questo, e riconosceranno il romanzo che avevano sempre voluto
leggere e che farà da pietra di paragone a tutti gli altri che leggeranno in
seguito. (Parlo soprattutto dei primi capitoli…)” (Guida alla Chartreuse a uso
dei nuovi lettori, p. 149 dell’edizione Mondadori).
Tra i saggi contenuti nel volume,
il primo, eponimo dell’intero libro, è quello, direi, più teorico e didascalico.
Esso riproduce un articolo scritto per “l’Espresso”, pubblicato il 28 giugno
1981 e intitolato: Italiani, vi esorto ai
classici. In questo brano, Calvino illustra la sua concezione di “classico”
proponendo quattordici “definizioni” (lo so, il termine è improprio, e va preso
con beneficio d’inventario) di questa parola allorché essa viene accostata a
un’opera letteraria.
Vorrei riportare per intero queste
quattordici declinazioni del termine “classico”, senza aggiungere nulla, ma
limitandomi a consigliare la lettura del volume di Calvino: sono definizioni all’apparenza
apodittiche che l’autore argomenta come se volesse dimostrarne la
cogenza. Credo che ognuno possa ritrovarsi in una (o più) delle quattordici formulazioni
e farla propria, magari pensando alla propria esperienza di lettore.
L’impressione che si ottiene,
leggendo questo primo saggio, è che tale elenco di definizioni abbia una
valenza antifrastica, come a voler suggerire che, in fondo, l’aggettivo
“classico” è indefinibile in senso scientifico o razionale. Esso possiede
diverse accezioni, nessuna delle quali esaurisce del tutto la sua portata
semantica. Alla fine Calvino scrive infatti: “La sola ragione che si può
addurre è che leggere i classici è meglio che non leggere i classici” (Perché leggere i classici, p. 13).
Ma lascio la parola all’autore:
1)
I
classici sono quei libri di cui si sente dire di solito: “Sto rileggendo…” e
mai “Sto leggendo…”.
2)
Si
dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti
e amati; ma costituiscono una ricchezza non minore per chi si riserba la fortuna
di leggerli per la prima volta nelle condizioni migliori per gustarli.
3)
I
classici sono libri che esercitano un’influenza particolare sia quando
s’impongono come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della
memoria, mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale.
4)
D’un
classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima.
5)
D’un
classico ogni prima lettura è in realtà una rilettura.
6)
Un
classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire.
7)
I
classici sono quei libri che ci arrivano portando su di sé la traccia delle
letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno
lasciato nella cultura o nelle culture che hanno attraversato (o più
semplicemente nel linguaggio o nel costume).
8)
Un
classico è un’opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi
critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso.
9)
I
classici sono libri che quanto più si crede di conoscerli per sentito dire,
tanto più quando si leggono davvero si trovano nuovi, inaspettati e inediti.
10)
Chiamasi
classico un libro che si configura come equivalente dell’universo, al pari
degli antichi talismani.
11)
Il
“tuo” classico è quello che non può esserti indifferente e che ti serve per
definire te stesso in rapporto e magari in contrasto con lui.
12)
Un
classico è un libro che viene prima di altri classici; ma chi ha letto prima
gli altri e poi legge quello, riconosce subito il suo posto nella genealogia.
13)
È un
classico ciò che tende a relegare l’attualità al rango di rumore di fondo, ma
nello stesso tempo di questo rumore di fondo non può fare a meno.
14)
È
classico ciò che persiste come rumore di fondo anche là dove l’attualità più
incompatibile fa da padrona.
Per chiudere, mi pare rilevante
riportare una notazione che l’autore pone a proposito della necessità di
accostarsi ai classici direttamente, evitando i filtri della critica letteraria
(p. 8 dell’edizione citata): “La lettura
d’un classico deve darci qualche sorpresa in rapporto all’immagine che avevamo.
Per questo non si raccomanderà mai abbastanza la lettura diretta dei testi
originali scansando il più possibile la bibliografia critica, commenti,
interpretazioni … C’è un capovolgimento di valori molto diffuso per cui
l’introduzione e l’apparato critico, la bibliografia vengono usati come una
cortina fumogena per nascondere quel che il testo ha da dire e che può dire
solo se lo si lascia parlare senza intermediari che pretendano di saperne di
più di lui”.
Nessun commento:
Posta un commento