“Ho cominciato la mia vita come
senza dubbio la terminerò: tra i libri” (p. 29). Nel ricostruire la genesi del
suo rapporto con le parole e la scrittura, Jean-Paul Sartre (1905-1980) ne Le parole (1964, trad. il Saggiatore
1964 e succ., da cui traggo i numeri di pagina dei passi citati), traccia un
ritratto originale, assieme amaro e ironico, degli anni della sua adolescenza. È
proprio allora, infatti, che si forma quella che egli definisce, nella chiusa
del libro, una sorta di benefica “follia” (Ciò
che mi piace nella mia follia è che essa mi ha protetto, fin dal primo giorno,
contro le seduzioni dell’“elite”: mai mi son creduto il felice proprietario di
un “talento”, p. 174), ossia la predilezione per la scrittura, la
convinzione che la letteratura sia una sorta di missione affidata a pochi
chierici. Incapace di giocare come gli altri bambini, cresciuto senza padre in
un mondo di adulti, il bambino Sartre comprende ben presto di non essere come
gli altri. Egli ama stare in casa perché poco adatto ai giochi all’aria aperta.
Per questo i libri per lui cessano presto di essere un mero passatempo: divengono
la sua vita, perché solo attraverso di essi egli si sente protagonista di
qualcosa, prima attraverso la lettura e poi, più tardi, mediante la scrittura: “Non
ho mai razzolato per terra, non sono mai andato a cacca di nidi, non ho
erborizzato né tirato sassi agli uccelli. Ma i libri sono stati i miei uccelli,
i miei nidi, i miei animali domestici, la mia stalla e la mia campagna (p. 35).
L’ammirazione degli adulti,
infatti, è legata alla sua precoce capacità di lettura. La diffidenza del nonno
Karl per queste attività non distoglie il Sartre bambino da qualcosa che egli
sente appartenere alla sua essenza, da un amore per la Parola che precede
qualsiasi riflessione razionale su di essa, essendo radicato in lui, nella sua
natura istintiva. Egli sa che è amato per quello, perché è precoce, un lettore
avido. Egli vive e ragiona come un adulto non rendendosi conto di cosa
significhi essere un bambino:
La mia verità, il mio carattere e il mio nome erano nelle mani degli
adulti; avevo imparato a vedermi attraverso i loro occhi; ero un bambino, quel
mostro che essi fabbricavano con i loro rimpianti. Quando non c’erano, essi si
lasciavano dietro il proprio sguardo, misto alla luce; io correvo, saltavo
attraverso quello sguardo che mi conservava la mia natura di nipotino modello,
che continuava a offrirmi i miei balocchi e l’universo. Nella mia camera
graziosa, nella mia anima, i miei pensieri giravano, chiunque poteva seguire il
loro maneggio: non un angolo d’ombra. E tuttavia senza parole, senza forma né
consistenza, diluita in questa trasparenza innocente, una trasparente certezza
sciupava tutto: ero un impostore (p. 58).
Sartre sospetta che questa benevolenza
sia un inganno e che le qualità che gli adulti lodano in lui non siano frutto
della sola sua natura, bensì siano un gioco per accattivarsi simpatie che,
altrimenti, egli non potrebbe ottenere; l’unico della famiglia che, forse, se
ne rende conto è il nonno Carl Schweitzer (zio del celebre Albert Schweitzer),
uomo colto, autoritario, scettico sulle possibilità letterarie del nipote
eppure, involontariamente, capace di favorire in lui l’amore per le parole. “Una
sera egli annunciò che voleva parlarmi da uomo a uomo, le donne si ritirarono,
mi prese sulle ginocchia e m’intrattenne gravemente. Sarei stato scrittore,
intesi; … Ma bisognava guardare le cose in faccia, lucidamente: la letteratura
non dava pane. Lo sapevo che degli scrittori erano morti di fame? Se volevo
conservare la mia indipendenza, conveniva scegliere un secondo mestiere” (p. 108).
Questo discorso produce l’effetto contrario, divenendo una sorta di parziale
nulla-osta al perseguimento dei suoi sogni letterari; in altre parole, Sartre
comprende così che la scrittura è il suo destino, il solo modo per diventare
grande, per acquisire una maturità. Il nonno “aveva menzionato la mia vocazione
se non per sottolinearne gli svantaggi: trassi la conclusione che egli la
considerava come acquisita … Il mestiere di scrivere mi apparve come
un’attività da persone grandi, così pesantemente seria, così futile e, in
fondo, così priva di interesse, che non dubitai nemmeno per un attimo che essa
non mi fosse riservata” (p. 110).
Sin dalla lettura delle prime
fiabe Sartre vive in un mondo a sé, nel quale egli gioca con personaggi
inventati da altri; più tardi, rapito dall’idea, titanica e illusoria, di creare
lui stesso dei personaggi, si mette a scrivere delle storie. Il passo dalla
lettura alla scrittura è breve ma decide il destino dell’intera sua esistenza.
La scoperta della forza del linguaggio scritto è il modo attraverso il quale il
bambino che non possiede infanzia s’introduce definitivamente nel mondo degli
adulti; incapace di essere bambino, inadatto a sviluppare pensieri infantili,
diventa adulto suo malgrado, molto prima della maturità fisica.
Orfano del padre sin da quando è nato,
Sartre scopre che la mancanza del padre è stata un fatto forse positivo; in tal
modo egli non apparteneva a nessuno, non aveva un maschio da prendere a modello
(benché il nonno avesse influenza su di lui), né un uomo da cui prendere
ordini. “Se fosse vissuto, mio padre si sarebbe steso lungo sopra di me e
m’avrebbe schiacciato … Fu un bene o un male? Non lo so; ma sottoscrivo
volentieri il verdetto di uno psicanalista: io non ho un Super-io” (p. 15).
Questa mancanza di autorità ha reso Sartre incapace di dare ordini, rendendolo un
ragazzo sensibile, pallido, qualche volta malato e poco propenso a instaurare
relazioni umane. Mentre i suoi amici vivevano una fanciullezza ordinaria,
spesso fatta di avventure, screzi, tragedie di poco conto, il Sartre bambino,
che si sentiva già “sentinella della cultura” (p. 47), viveva, seduto sul
divano di casa, grandi e immense tragedie, avventure nella giungla, assistendo
a grandi omicidi e amori memorabili. Lo faceva leggendo, certo, ma era come se
succedesse tutto sul serio.
Questo genere di esistenza,
sempre alla ricerca di ciò che appare superiore, rende il mondo di Sartre
qualcosa di chiuso, impenetrabile; in questo mondo di parole stampate egli si
sente superiore a tutti, quasi inarrivabile. Non è così, ovviamente, quando
incontra il mondo reale: “Ero il primo, l’incomparabile, nella mia isola aerea:
mi ritrovai all’ultimo posto quando mi sottomisero alle regole comuni” (p. 53).
Eppure questa lacerazione non è una ferita. Egli sa qual è il mondo dove vivere
bene. Isolato, idolatrato dalle donne di famiglia come bimbo precoce, guardato
con sospettoso amore dal nonno, il piccolo Sartre sente che solo nella
letteratura può stare bene, sebbene questa magia sia di breve durata. Crescendo,
egli comprende che il piacere della lettura diviene, alla lunga, un triste
dovere; egli è infatti solo il protagonista di avventure che sono scritte da
altri.
E allora, forse ispirato dalla
scoperta del cinematografo, forse perché ogni giorno il confronto con gli altri
bambini dava risultati modesti, ecco che il piccolo Sartre si getta nella
scrittura come sua seconda attività coronata di parole. La frequentazione delle
grandi opere letterarie, dei grandi scrittori, funge da stimolo motivatore;
tuttavia, la coscienza che molti di questi scrittori hanno condotto
un’esistenza infelice, che siano stati poco conosciuti e, spesso, dimenticati
una volta morti, atterrisce Sartre. Egli non concepisce la scrittura se non
come un mezzo per sconfiggere la morte, per sopravvivere agli esseri mortali;
sa che il destino dello scrittore è infelice, ma concepisce la scrittura come
un martirio al quale sottoporsi voluttuosamente, soffrendo e piangendo. Per
salvarsi, gioca carte che non ha, rischia, sommette di essere un predestinato:
“sarei stato capolavoro firmato: sicuro di poter eseguire la mia parte nel
concerto universale, avrei pazientemente atteso che [Dio] mi rivelasse i suo
disegni e le mie necessità” (p. 67).
Sartre s’immagina di sopravvivere
grazie alla propria opera; mentre i suoi amici sono turbati dalla morte fisica (“Nizan
era il più ossessionato: a volte, in pieno giorno, si vedeva cadavere” p. 135),
egli accetta con serenità il suo destino perché, scrive, “la mia nascita mi apparve
come un male necessario, come un’incarnazione del tutto provvisoria che avrebbe
preparato la mia trasfigurazione: per rinascere bisognava scrivere, per
scrivere erano necessari un cervello, occhi, braccia; finito il lavoro, questi
organi si sarebbero riassorbiti da sé” (p. 133). Egli immagina che dal suo
corpo decomposto si alzeranno delle farfalle in-folio che si poseranno sugli scaffali della Biblioteca Nazionale
a Parigi. Egli allora non sarà più un uomo né un corpo in decomposizione, bensì
diverrà un libro, anzi, l’insieme di tutti i libri da lui scritti: “La mia
coscienza è in briciole: meglio così. Altre coscienze m’hanno preso in carico. Mi
leggono, salto agli occhi, mi parlano, sono in tutte le bocche, lingua
universale e singolare” (p. 135). Questo accade perché lo scrittore autentico
dovrebbe avere la coscienza di vivere fuori dal tempo, in una dimensione che
trascende il tempo fisico, quello che appartiene all’esistenza quotidiana; egli
non prova malinconie perché l’istante appena trascorso è già sepolto mentre
solo ciò che sta per venire, il Nuovo, deve interessarlo, come qualcosa che ci
costituisce davanti ai suoi occhi: “L’adolescenza, la maturità, lo stesso anno
che è appena finito, saranno sempre l’Ancien Régime: il Nuovo si annuncia nell’ora
presente ma non è mai costituito” (p. 163).
Naturalmente questa dimensione
a-temporale dello scrittore ha i suoi svantaggi; perché solo pochi scrittori,
vivendo grazie all’arte, sono in grado di scrivere un’opera che sappia porsi al
di là del tempo fisico; l’esistenza delle piccole cose, delle esigenze contingenti,
infatti, preme senza sosta sull’essere umano. Il suo corpo non tace mai, la
necessità di vivere, di stare al mondo, costituisce un insieme di appelli alla
prassi, alla concretezza, capace di distrarre l’individuo nel perseguimento dell’ideale
artistico. Però Sartre si è messo in testa di avere una missione; in realtà,
sono stati gli adulti che, lodando le sue supposte capacità intellettuali, lo
hanno convinto. Lui ne ha preso atto, rendendosi conto che, chiamato a esistere
in un mondo colmo di ragazzi più forti e sani di lui, solo immergendosi nella
lettura e poi impegnandosi a scrivere avrebbe potuto prevalere in qualcosa. La scoperta
della scrittura è stata una sorta di seconda, e autentica, nascita: “Sono nato
dalla scrittura: prima, c’era solo un gioco di specchi; a partire dal mio primo
romanzo, seppi che un bambino s’era introdotto nel palazzo degli specchi.
Scrivendo, esistevo, mi sottraevo alle persone grandi; ma non esistevo che per
la scrittura” (p. 106).
Sartre non ignora il carattere
precario e caduco delle “produzioni” umane, soprattutto artistiche. Tuttavia,
egli è altresì consapevole che solo agendo, “producendo”, l’essere umano lascia
una traccia di sé, per quanto flebile e destinata a dissolversi. Se è venuta
meno la fede nell’impegno quale unica ragione di esistere dell’uomo, se ora in
Sartre vige la consapevolezza che quel che accade nella vita non è imputabile
solo alle scelte del singolo individuo perché esiste una dimensione universale
che trascende l’uomo singolo (e che non è religiosa, bensì connessa alle
stratificazioni storiche e culturali che portiamo sulle spalle nascendo e che,
morendo, diamo in eredità a chi viene dopo di noi), questo non significa che
egli rinunci a scrivere, perché per lui solo la scrittura costituisce un modo
per esistere autenticamente: “Per molto tempo ho preso la penna per una spada:
ora conosco la nostra impotenza. Non importa: faccio, farò dei libri; ce n’è bisogno;
e serve, malgrado tutto. La cultura non salva niente né nessuno, non
giustifica. Ma è un prodotto dell’uomo, egli vi si proietta, vi si riconosce;
questo specchio critico è il solo a offrigli la sua immagine” (p. 173).
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