Raccontare l’età cruciale
tra l’adolescenza e la maturità è impresa ardua. Soprattutto in un’epoca come
quella attuale nella quale i confini tra le età sfumano, e la classica
distinzione tra le diverse fasi dell’esistenza è messa in discussione. Sia da situazioni
oggettive che impediscono la “crescita”, sia, talvolta, da una sorta di
pigrizia mentale che rende insopportabile l’abbandono di fanciullezza e
adolescenza. I ragazzi protagonisti del libro di Massimiliano Maestrello, Queste stanze vuote (Edizioni La Gru 2014), hanno quantomeno
il merito di provare, spesso senza accorgersene, a varcare la soglia tra la
fanciullezza e un’età indefinita, più o meno adulta. È questo credo il tema
dominante di una raccolta di racconti che si snoda felicemente affrontando il
tema della problematica, oscura, spesso drammatica, “maturazione” di giovani
ragazzi.
Il libro si legge molto
bene e si è colti sovente dal desiderio di sapere “come vanno a finire” le
singole vicende; in particolare dalla Terza
stanza in poi il pathos narrativo prende piede e la sensibilità dell’autore
si manifesta pienamente. Le “stanze” sono quasi tutte narrate in prima persona
da un protagonista che peraltro non sempre è il personaggio fondamentale anche
perché si tratta di racconti corali, dove non agisce un attore unico. Scorrendo
le pagine, spesso è facile immedesimarsi nei fatti che capitano ai personaggi,
oppure condividere la rabbia per i vacui pomeriggi passati nella provincia
italiana, l’imbarazzo dovuto al non riuscire a capire qualcosa che è
fondamentale e farà crescere, il brivido di noia che conduce a fare cose
ignobili, come succede ai protagonisti dell’ultima stanza.
Un altro aspetto
qualificante del libro mi sembra il finale aperto che caratterizza le diverse
stanze: sebbene in ognuna di esse avvenga una sorta di metamorfosi che
costringe i personaggi a cambiare o a interrogarsi su di sé, il finale non è mai
conclusivo; il lettore, infatti, avverte che quando la narrazione termina il
personaggio vorrebbe forse dire ancora qualcosa. Ma ormai la metamorfosi è
compiuta e non è possibile tornare indietro, giacché il processo è
irreversibile e la nuova età bussa alla porta, spesso in forme sconsolate, come
quelle del ragazzino infelice e solo della Prima
stanza che cede al brivido di provare l’eroina con indolenza, passivamente
rassegnato a un’esistenza di sofferenza e di oscurità.
Forse non è esatto
affermare che i protagonisti di queste storie “crescano”. Sarebbe riduttivo. In
realtà essi vanno incontro a una specie di salto verso la vita: tale mutamento
non possiede di per sé un valore positivo, anzi, non possiede nessun valore
etico; l’autore, a volte, sembra osservare i fatti con distacco, riferendo quel
che è accaduto senza (per fortuna) voler indicare esempi positivi e negativi.
Però non è facile rimanere distaccati: la Quarta
stanza narra il ritorno al paese natio di un ragazzo vissuto all’estero e
che si rende conto che la sua vera casa è in quel paese sperduto di pianura.
Quando egli si domanda qual è il posto che gli appartiene veramente, gli viene
in mente una casetta sull’albero che il padre gli aveva costruito quando era
piccolo. Allora decide di vedere se la casetta è ancora al suo posto: appena la
rivede, il tempo, per un attimo, sembra arrestarsi; il racconto ha dei tratti
struggenti e, inoltre, svela un’altra caratteristica frequente del libro di
Massimiliano, ossia il fatto che il superamento della soglia tra le età è
inconsapevole e indotto dagli eventi. Un po’ come accade alla protagonista
della Sesta stanza, una ragazza
(notevole la capacità dell’autore di narrare i fatti da una prospettiva
femminile) che, dopo aver scoperto che suo padre tradisce sua madre (e avendo
constatato l’incapacità della madre di reagire), diventa donna grazie al
ragazzo che le piace, ma si rende conto questa nuova maturità è deludente e
dolorosa, quasi disperata.
Nessuno di questi ragazzi,
dunque, sa bene cosa sia quel a cui va incontro. Ciò che muta le loro
esistenze è spesso un fatto di poco conto, almeno in apparenza; il “salto” che
essi compiono, come succede al narratore della storia della Settima stanza, è alla cieca: “Avevamo
superato anche quella, e in un attimo ci eravamo ritrovati nel buio”. Appunto,
in un “attimo” che precipita nel buio, nell’ignoto, l’esistenza cambia
carattere; quel che prima di quel singolo “attimo” appariva in un certo modo,
dopo di esso appare diversamente. Il ragazzino che scopre il sesso nella Terza stanza, durante i Mondiali di
calcio del 1990, ci mette un secondo a scoprire che suo padre e la sua amica
non sono solo “amici”, ma qualcosa d’altro. Mirco, il ragazzo omosessuale della
Quinta stanza (episodio narrato in
terza persona), che torna a casa con il proprio compagno, sa che suo padre non
ha mai accettato quella sua vita; e, anche da adulto, è consapevole del fatto
che non c’è possibilità di riconciliazione: l’ultimo incontro con il padre è
drammatico, il muro tra di loro è ancora più alto; nonostante siano passati
anni, il padre dice al figlio: “Non sei cambiato”, facendogli capire in un
attimo fulmineo che non c’è più nulla che li lega, che la “scelta” del figlio
ha prodotto una ferita che non può guarire e che l’età adulta per Mirco
coinciderà, forse, con una sconsolata solitudine, o almeno con la lontananza
dalla sua famiglia d’origine. Infine, la ragazza che scopre il “tradimento” del
padre alla madre vive quell’attimo come qualcosa che cambierà per sempre la sua
vita; e il fatto che i suoi genitori sembrino riconciliarsi la rende rabbiosa,
facendola illusoriamente sentire adulta e matura: “Avevo finito per detestarli,
tutti e due […] Non erano più i miei genitori, quelli, e ogni volta che li
guardavo finivo per provare una strana paura: la paura che, se avessi indagato,
se avessi fatto domande, se avessi scavato più a fondo nelle loro vite, avrei
trovato qualcosa di ancora più doloroso. Era come se nascondessero
consapevolmente – prima di tutto a loro stessi – il germe dell’infelicità che
li aveva infettati” (p. 176).
Ma non intendo rivelare le
trame dei racconti. Vorrei solo aggiungere che l’autore non si pone da una
prospettiva né storica, né esistenziale, né sociologica. I fatti narrati non
sono eccezionali, ma appartengono (o sono appartenuti) al vissuto di migliaia
di giovani, di ieri e di oggi, in città e in provincia. Inoltre, l’autore non è
mai retorico, né si atteggia a moralista e non è nemmeno intenzionato a
scrivere fasi memorabili, lasciando sulla pagine un’impronta roboante e
indelebile. La scrittura, al contrario, è asciutta, pulita: anche quando narra
vicende “scabrose” non perde mai la bussola, non è ipocritamente reticente né
cade nella retorica “pulp”, mischiando sesso e sangue con voluttà. È misurato,
consapevole di sé, cosciente del fatto che la vita non è un film e che, nella
vita, i momenti fondamentali non si presentano quasi mai come tali allorché
accadono, ma lo divengono ex post,
quando li si osserva dopo qualche anno e magari verso di essi si avverte, belli
o brutti che siano stati, una puntina di malinconia.
Nessun commento:
Posta un commento