A poco a poco l’Europa si era trovata divisa in due
blocchi opposti di grandi potenze. Simili blocchi, al di fuori della guerra,
erano di per sé una novità, dovuta essenzialmente alla comparsa sulla scena
europea di un impero tedesco unificato, creato a spese altrui fra il 1864 e il
1871 con la diplomazia e con la guerra, e mirante a proteggersi contro la
Francia, principale perdente, con alleanze in tempo di pace, generatrici di
alleanze contrapposte. Le alleanze, per sé, pur implicando la possibilità di
guerra, non la rendono certa e nemmeno probabile [...].
Un sistema di blocchi di potenze diventava un
pericolo per la pace solo quando le contrapposte alleanze diventavano
permanenti; ma soprattutto quando i contrasti fra loro diventavano insolubili.
Ciò è quanto avvenne nel nuovo secolo. La domanda cruciale è: perché? [...]. Avvenne
perché i giocatori e le regole del gioco diplomatico internazionale erano
cambiati. In primo luogo, il tavoliere di gioco era diventato molto più grande.
Le rivalità, un tempo limitate in gran parte (a eccezione dell’Inghilterra)
all’Europa e aree adiacenti, erano adesso globali e imperiali [...]. In
secondo luogo, con l’avvento di un’economia capitalistica industriale mondiale,
la partita internazionale si giocava per poste molto diverse. Ciò non significa
che, per parafrasare il detto famoso di Clausewitz, la guerra era diventata
solo la continuazione della concorrenza economica con altri mezzi. Era questa
un’idea che attirava i deterministi storici del tempo, se non altro perché essi
vedevano abbondanti esempi di espansione economica per mezzo di mitragliatrici
e cannoniere; ma era un’idea grossolanamente semplicistica. Se lo sviluppo
capitalistico e l’imperialismo hanno le loro responsabilità per l’incontrollato
slittamento nel conflitto mondiale, è impossibile sostenere che molti
capitalisti fossero deliberatamente guerrafondai. Qualsiasi studio imparziale
dei giornali economici, della corrispondenza privata e commerciale degli uomini
d’affari, delle loro dichiarazioni pubbliche in quanto esponenti della banca,
del commercio e dell’industria, dimostra esaurientemente che la maggioranza
degli uomini d’affari ritenevano vantaggiosa per loro la pace internazionale.
La guerra era accettabile solo in quanto non interferiva con il normale
svolgimento degli affari; e la principale obbiezione contro la guerra del
giovane economista Keynes (non ancora radicale riformatore della sua materia)
era non solo che la guerra uccideva i suoi amici, ma che essa rendeva
impossibile una politica economica basata appunto su quel normale svolgimento.
[…]
Perché infatti i capitalisti - e anche gli
industriali, con la possibile eccezione dei fabbricanti d’armi - avrebbero
dovuto desiderare di turbare la pace internazionale, condizione essenziale
della loro prosperità e espansione, dato che da essa dipendeva l’andamento
delle libere operazioni internazionali commerciali e finanziarie? Evidentemente
chi traeva profitto dalla concorrenza internazionale non aveva motivo di
lagnanza. [...]. Chi ci rimetteva, tendeva naturalmente a chiedere protezione
economica ai governi; ma ciò è tutt’altra cosa che chiedere guerra. [...]. Eppure
lo sviluppo del capitalismo spingeva inevitabilmente il mondo nella direzione
delle rivalità statali, dell’espansione imperialistica, del conflitto e della
guerra.
Il mondo economico non era più, come a metà
Ottocento, un sistema solare ruotante intorno a un’unica stella, la Gran Bretagna. Se
le operazioni finanziarie e commerciali del globo passavano ancora e anzi in
misura crescente per Londra, l’Inghilterra non era più l’«officina del mondo»,
e neanche il suo massimo mercato d’importazione. Il suo relativo declino era
evidente. Adesso c’erano, e si affrontavano, una serie di economie industriali
nazionali concorrenti. In queste circostanze la competizione economica si
intrecciava inestricabilmente con l’azione politica e anche militare degli
Stati. La rinascita del protezionismo durante la Grande Depressione fu la prima
conseguenza di questo intreccio. Per il capitale, il sostegno politico poteva
d’ora in avanti essere indispensabile sia per tener fuori la concorrenza
estera, sia in parti del mondo in cui le imprese delle varie economie
industriali nazionali concorrevano l’una con l’altra. Per gli Stati, l’economia
era ormai al tempo stesso la base della potenza internazionale, e il criterio
della medesima. Era impossibile ormai concepire una «grande potenza» che non
fosse anche una «grande economia»; trasformazione illustrata dall’ascesa degli
Stati Uniti e dal relativo indebolimento dell’impero zarista […].
Ciò che rendeva tanto pericolosa questa
identificazione di potenza economica e politico- militare non erano soltanto le
rivalità nazionali per la conquista di mercati mondiali e di risorse materiali,
e per il controllo di regioni quali il Vicino e Medio Oriente, dove gli
interessi economici e strategici spesso combaciavano. […] La novità
della situazione era che, data la fusione di economia e politica, neanche la
pacifica divisione di regioni contese in «zone di influenza» riusciva a
imbrigliare le rivalità internazionali. La chiave della controllabilità, come ben
sapeva Bismarck, che la gestì con maestria impareggiabile fra il 1871 e il
1889, era la deliberata limitazione degli obbiettivi. Finché gli Stati erano in
grado di definire con esattezza i loro obbiettivi diplomatici - un determinato
spostamento di confini, un matrimonio dinastico, un indennizzo precisabile per
i vantaggi ottenuti da altri Stati - calcoli e accomodamenti erano possibili.
Né gli uni né gli altri, naturalmente - come Bismarck stesso aveva dimostrato
fra il 1862 e il 1871 - escludevano un conflitto militare controllabile […].
In breve, crisi internazionali e crisi interne si
fusero negli ultimi anni prima del 1914. La Russia, di nuovo minacciata dalla
rivoluzione sociale; l’Austria, minacciata dalla disgregazione di un impero
multiplo non più politicamente controllabile; anche la Germania, polarizzata e
forse minacciata di immobilismo dalle sue divisioni politiche: tutti diedero la
parola ai militari e alle loro soluzioni. Anche la Francia, unita dalla
riluttanza a pagare tasse e quindi a trovare i soldi per un riarmo massiccio (era
più facile prolungare di nuovo la ferma militare a tre anni), elesse nel 1913
un presidente che invocava la vendetta contro la Germania e assumeva
atteggiamenti bellicosi, facendo eco ai generali che adesso, con micidiale
ottimismo, abbandonavano una strategia difensiva per la prospettiva di una
travolgente offensiva attraverso il Reno. Gli inglesi preferivano ai soldati le
corazzate: la marina era sempre stata popolare, gloria nazionale accettabile ai
liberali in quanto protettrice del commercio. Le azioni intimidatorie navali
avevano un loro sex-appeal politico, a differenza delle riforme dell’esercito. Pochi,
anche fra i politici, capirono che i piani per una guerra a fianco della
Francia implicavano un esercito di massa e prima o poi la coscrizione; l’unica
cosa prevista era una guerra essenzialmente navale e commerciale. Pure, anche
se il governo britannico rimase pacifista fino all’ultimo - o meglio, rifiutò
di prendere posizione per timore di spaccare il gabinetto liberale - esso non
poteva contemplare l’ipotesi di rimanere fuori dalla guerra. Fortunatamente,
l’invasione tedesca del Belgio, da tempo programmata in base al piano
Schlieffen fornì a Londra una copertura morale per le necessità diplomatiche e
militari.
da: E. J. Hobsbawm, L’età degli imperi
1875-1914, Laterza, Roma-Bari 1988, pp. 356-370.
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