domenica 10 agosto 2014

AZAR NAFISI, "LEGGERE LOLITA A TEHERAN"




Il brano che riporto qui sotto è tratto dal testo Leggere Lolita a Teheran, pubblicato negli USA nel 2003, scritto dell’intellettuale iraniana Azar Nafisi. L’autrice, dopo aver studiato in America e in Europa, è stata insegnante di letteratura all’Università di Teheran e ha vissuto in pieno la Rivoluzione islamica del 1979 che ha provocato la cacciata dello Scià di Persia. Nafisi è diventata un’oppositrice del regime degli ayatollah. La sua figura di donna e di letterata, in un paese come l’Iran, le ha fatto assaporare sia la crudezza dell’oppressione, sia la difficile e rischiosa notorietà. Non potendo più resistere alle pressioni del regime e al tentativo di influenzare l’insegnamento universitario, Azar Nafisi nel 1997 decide di emigrare con la sua famiglia verso gli Stati Uniti, dove insegna tuttora.
Leggere Lolita a Teheran racconta un’esperienza vera: a metà anni ’90 Nafisi, ormai stanca per le continue pressioni della Repubblica islamica per influenzare i contenuti delle lezioni, decide di interrompere il suo insegnamento all’università; ma non vuole lasciare le sue studentesse, per cui organizza un seminario da tenersi ogni giovedì mattina presso la sua abitazione. Il libro, pur non essendo un testo di narrativa, risulta lo stesso avvincente e affascinante: esso mette assieme il racconto della difficile vita nella Teheran del regime degli ayatollah, tra arresti, bombardamenti, restrizioni alla libertà personale soprattutto per le donne, con la narrazione degli incontri tra Nafisi e le sue allieve.
Durante questi incontri si parla di letteratura, di grandi autori come Nabokov, Saul Bellow, Jane Austen, Henry James, non per “sfuggire” a una realtà difficile, bensì per viverla soffrendo il meno possibile. Difatti, nessuno di coloro che partecipano a questi incontri nasconde la realtà, si tratti di quella politica o di quella personale. Non si tratta di una fuga dal reale perché la realtà, drammatica, avvolge sempre l’autrice, ma di un modo diverso, reso più intenso dalla letteratura, di vivere, di amare i propri familiari, di provare terrore. In una pagina del libro, Nafisi scrive per esempio, a proposito di Fitzgerald autore de The Great Gatsby: “Un grande romanzo acuisce le vostre percezioni, vi fa sentire la complessità della vita e degli individui, e vi difende dall’ipocrita certezza nella validità delle vostre opinioni, nella morale a compartimenti stagni…”.
Secondo l’autrice i guardiani della Rivoluzione iraniana temono che gli scrittori, se non si dichiarano fedeli all’Islam, siano dei corruttori della morale. In tal modo, però, essi esagerano il potere dei libri e della scrittura. In questo modo non fanno altro che corroborare l’opinione di Nafisi sulla letteratura come essenziale strumento democratico, non perché essa si debba occupare di democrazia o di politica, ma perché, grazie all’immaginazione e alle parole del libro che leggiamo, noi possiamo comprendere tutti i personaggi della storia e rispettarli nella loro complessità. Il messaggio “democratico” dei libri è in sostanza legato alla loro capacità di dare voce alla molteplicità dei personaggi che in essi agiscono. L’immaginazione è un potente alleato di chi legge. Un grande libro è quello che muove il lettore alla comprensione delle vicende dei personaggi, anche di quelli riprovevoli; prima della condanna, della simpatia o dell’antipatia, il lettore, se legge un buon libro, avvertirà in sé il desiderio di capire a fondo la complessità della trama e dei personaggi. In altre parole, rifuggirà i pregiudizi e si disporrà, con animo laico, alla comprensione. Dovrebbe succedere così anche quando ci rivolgiamo ai “personaggi reali”, alla nostra vita quotidiana; per questo un buon libro insegna non perché indica cosa è bene o cosa è male, ma perché spiega che prima del giudizio dovrebbe esistere la comprensione piena di quel che si intende giudicare.
Come cittadina di un regime diffidente verso l’arte e la letteratura, l’autrice pone diverse volte la questione della relazione tra la letteratura e il potere. I potenti iraniani hanno un rapporto ambivalente con la letteratura; da un lato, essi ostentano disprezzo verso gli artisti, accusati talvolta di bassezza morale o di non produrre nulla di concreto e utile per la società. Dall’altro lato, però, i potenti temono gli artisti, i quali sono spesso tra i primi a venire colpiti, arrestati o peggio uccisi. Per esempio, secondo i guardiani della rivoluzione iraniana, il capolavoro di Nabokov, Lolita, corrompe i giovani. Ma chi ama i libri, scrive l’autrice, sa che non è così: un romanziere non è un pedagogo, e non corrompe nulla, né insegna alcunché. Egli può far capire che i valori assoluti, le fedi dogmatiche, le credenze consolidate, i giudizi netti e perentori, non appartengono al mondo degli uomini. Uno scrittore dovrebbe acuire i contrasti presenti nella società, denunciarne i problemi, non limitarsi a esaltare e sacralizzare l’esistente, come vorrebbero i potenti. E allora si scopre che non è sempre vero che l’artista è, per definizione, un uomo “contro” i regimi dittatoriali; perché, per tanti letterati che hanno combattuto per la libertà, opponendosi alle dittatura, ce ne sono diversi che si sono prestati a sostenere i regimi dittatoriali. I libri che meritano di essere letti non sono quelli che distraggono, né quelli che si propongono di insegnare qualcosa sul mondo o sulla vita, ma quelli che offrono uno strumento critico per valutare il mondo, dice l’autrice, “non solo il nostro, anche l’altro, l’oggetto dei nostri desideri” (p. 314). Il testo racconta di una lettura sotto un bombardamento, durante gli anni della guerra tra Iran e Iraq.

«Attenzione! Attenzione! Allarme rosso! Scendete immediatamente nei rifugi!». A volte mi domando se, e quando, smetterò mai di sentire l’eco di quella sirena — un suono stridulo che mi fa venire i brividi. Mi risulta tuttora impossibile scindere il ricordo degli otto anni di guerra da quell’urlo lacerante che varie volte al giorno, nei momenti più inaspettati, invadeva la nostra vita. I livelli di allarme erano tre, rosso (pericolo), giallo (possibilità di pericolo) e bianco (cessato pericolo), ma non sono mai riuscita a distinguerli. In un certo senso, anche nel suono della sirena bianca si annidava una minaccia. Di solito l’allarme rosso suonava troppo tardi, con la bomba già sganciata o il missile già in volo, e in ogni caso neppure all’università esistevano veri rifugi.
Le incursioni aeree su Teheran sono impossibili da dimenticare, e per tanti motivi, non ultimo le amicizie improvvise che ne nascevano. In più di un’occasione, semplici conoscenti che avevamo invitato a cena si ritrovarono a passare la notte da noi; a volte erano una decina, anche di più, e al mattino era come se ci frequentassimo da una vita. E le notti insonni! In casa nostra ero quella che dormiva di meno. Volevo stare vicina ai bambini, in modo tale che fossimo tutti insieme se succedeva qualcosa. Durante le incursioni mio marito dormiva, o almeno ci provava, mentre io prendevo due cuscini, qualche candela e il mio libro e andavo a sdraiarmi nel corridoio che separava la stanza dei bambini dalla nostra. Pensavo che se fossi rimasta sveglia avrei potuto, con la forza del pensiero, deviare le bombe.
Una notte mi svegliai di soprassalto: dovevano essere le tre o le quattro, e la casa era immersa nel buio. Mi affacciai alla finestra e vidi che mancava la luce: i lampioni erano spenti. Accesi la torcia. Qualche minuto dopo ero già in corridoio, coi cuscini appoggiati al muro, due candele accese e il libro. Sentii un’esplosione. Col cuore in gola mi premetti la mano sulla pancia, d’istinto, proprio come facevo durante i bombardamenti quando ero incinta. Provai a far finta di niente, e abbassai il cono di luce della torcia su una pagina di Daisy Miller.
Fu in quel periodo che, leggendo certi autori, senza rendermene conto ripresi in mano carta e penna, anche se non avevo mai perso del tutto la piacevole abitudine studentesca di sottolineare brani e prendere appunti. Molte delle mie note su Orgoglio e pregiudizio, Washington Square, Cime tempestose, Madame Bovary e Tom Jones sono frutto di quelle notti insonni, in cui il terrore delle bombe e dei missili rendeva la concentrazione quasi febbrile.
Avevo appena cominciato Daisy Miller e stavo leggendo del giovane americano europeizzato, Winterbourne, che incontra in Svizzera l’incantevole e enigmatica Miss Daisy. Winterbourne rimane affascinato da quella bella ragazza americana - superficiale e volgare per alcuni, innocente e ragazza «seria» o «leggera». La storia ruota intorno all’incapacità di Winterbourne di scegliere tra Daisy, con la sua indifferenza all’etichetta, e la comunità di americani snob che preferiscono ignorare la ragazza. La scena che stavo leggendo si svolge dopo che Daisy ha chiesto a Winterbourne di presentarla alla sua aristocratica zia. Winterbourne tenta di informarla, con la massima delicatezza possibile, che sua zia non vuole riceverla. « Daisy Miller si fermò e lo guardò dritto in faccia. La bellezza di lei era visibile pur nell’oscurità; apriva e chiudeva l’enorme ventaglio. “Sua zia non desidera conoscermi!” esclamò a un tratto. “Perché non me lo dice francamente?”».  
Sentii il fragore di un’altra esplosione. Avevo sete, ma non riuscivo ad alzarmi e andare a prendere da bere. Altre due deflagrazioni. Continuai a leggere, spostando ogni tanto lo sguardo dal libro al corridoio. Con la guerra e i bombardamenti la mia paura del buio, che ho sempre avuto, era passata in secondo piano. In una scena che ricorderò sempre — non solo per via di quella notte — Daisy dice a Winterbourne: «“Non abbia paura. Io non ne ho”. E fece una risatina. A Winterbourne parve di cogliere un tremito nella sua voce; ne fu commosso, turbato, mortificato. “Signorina cara,” protestò “mia zia non vede nessuno. E la sua sciagurata salute”. La ragazza avanzò di qualche passo, ridendo ancora. “Non abbia paura” ripeté».
C’è tanto coraggio in quella frase, e anche ironia, perché ciò che Winterbourne teme davvero non è la zia ma il fascino di Miss Daisy. Per un attimo credo di essere riuscita davvero a non pensare alle bombe, perché le parole «Non abbia paura» sono sottolineate.
Subito dopo, quasi in contemporanea, mia figlia mi chiamò dalla sua camera, suonò il telefono e qualcuno bussò alla porta. Raccolsi una candela e mi diressi verso il telefono, dicendo a Negar che stavo arrivando. Nello stesso istante si aprì la porta: era mia madre, anche lei con una candela in mano. Mi domandò: « Stai bene? Non aver paura! »; ormai era diventato un rito: quasi sempre, di notte, sotto i bombardamenti, mia madre entrava in casa nostra con una candela. Andò lei in camera di mia figlia, e io risposi al telefono. Era un’amica; voleva sapere se stavamo bene. Le era sembrato che le esplosioni provenissero dal nostro quartiere. Anche quello era diventato un rito, chiamare amici e familiari per assicurarsi che fossero in salvo, sapendo che il proprio sollievo significava la morte di qualcun altro.
Durante quelle notti di allarmi bianchi e rossi tracciai senza nemmeno accorgermene il percorso della mia carriera futura. Quando ricominciai a insegnare, infatti, scoprii di aver già pronti due corsi sul romanzo, e nei quindici anni successivi studiai e insegnai soprattutto narrativa. Se fosse possibile conservare un suono come si fa con una foglia o una farfalla, direi che tra le pagine della mia copia di Orgoglio e pregiudizio - uno dei romanzi più polifonici che esistano - e in quella di Daisy Miller è custodito come una foglia d’autunno l’urlo della sirena dell’allarme rosso.
Le sirene, la voce metallica che ci intimava di fare attenzione, i sacchi di sabbia per le strade, e le bombe, di solito la mattina presto o dopo mezzanotte; poi gli intervalli più o meno brevi tra un bombardamento e l’altro, Jane Austen e Henry James e le aule al quarto piano dell’edificio che ospitava la Facoltà di Persiano e di Lingue e Letterature Straniere. Le aule erano disposte su due file in un corridoio lungo e stretto; da un lato si affacciavano sulle montagne, che non erano poi così lontane, dall’altro su un giardino un po’ triste ma bello, sempre piuttosto trascurato, con una piccola fontana che aveva al centro una statua scheggiata. Intorno alla fontana, cespugli e fiori che disegnavano cerchi e riquadri, e poi gli alberi. I fiori sembravano cresciuti a casaccio: qualche bella rosa, grandi dalie e alcuni narcisi. Tutte le volte che lo guardavo mi sembrava che quel giardino non appartenesse all’università ma fosse uscito dalle pagine di un romanzo di Hawthorne.
Adesso ogni apparizione in pubblico era preceduta da un mio rituale, che seguivo scrupolosamente. Non usavo mai trucco, neanche un filo, e per quanto possibile nascondevo il corpo sotto una maglietta e un paio di pantaloni neri informi. Sopra mettevo la veste nera lunga e il velo dello stesso colore, che mi avvolgevo intorno al collo. Riempivo la borsa — sempre troppo di libri e di appunti; molto di quel che c’era dentro non mi serviva nemmeno, però lo portavo lo stesso; mi dava sicurezza.
Non so perché, ma ho un ricordo confuso del percorso da casa mia all’università. Come per magia, senza superare il cancello verde e la garitta del custode, senza passare dalla porta a vetri che conduceva nell’edificio, né davanti ai cartelli che insultavano la cultura occidentale, mi ritrovo in fondo alle scale della facoltà.
Mentre salgo, cerco di non far caso ai manifesti e ai cartelli appesi disordinatamente alle pareti. Si tratta più che altro di fotografie in bianco e nero dal fronte iracheno, e di slogan che accusano il Grande Satana, vale a dire l’America, e i suoi emissari. Citazioni dell’ayatollah Khomeini - LA VITTORIA È NOSTRA NELLA STRAGE DEI NEMICI O NEL MARTIRIO! LE UNIVERSITÀ DEVONO ESSERE ISLAMICIIE! LA GUERRA È UN  DONO DI ALLAH! - accompagnano le fotografie.
Non sono mai riuscita a reprimere la rabbia che mi facevano quelle fotografie sbiadite, appese e poi dimenticate sulle pareti color crema, quegli slogan pieni di rimproveri, sempre e solo di rimproveri: sul colore dei vestiti, sul modo di comportarsi e su tutto il resto. Mai un avviso su una conferenza, un film o la presentazione di un libro.

(da: Leggere Lolita a Teheran, trad. di R. Serrai, Adelphi, Milano 2004, pp. 215-219).

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