Il brano che riporto qui sotto è tratto dal
testo Leggere Lolita a Teheran, pubblicato negli USA nel 2003,
scritto dell’intellettuale iraniana Azar
Nafisi. L’autrice, dopo aver studiato in America e in Europa, è stata insegnante
di letteratura all’Università di Teheran e ha vissuto in pieno la Rivoluzione islamica
del 1979 che ha provocato la cacciata dello Scià di Persia. Nafisi è diventata un’oppositrice
del regime degli ayatollah. La sua figura di donna e di letterata, in un paese
come l’Iran, le ha fatto assaporare sia la crudezza dell’oppressione, sia la difficile
e rischiosa notorietà. Non potendo più resistere alle pressioni del regime e al
tentativo di influenzare l’insegnamento universitario, Azar Nafisi nel 1997
decide di emigrare con la sua famiglia verso gli Stati Uniti, dove insegna
tuttora.
Leggere Lolita a Teheran racconta
un’esperienza vera: a metà anni ’90 Nafisi, ormai stanca per le continue
pressioni della Repubblica islamica per influenzare i contenuti delle lezioni,
decide di interrompere il suo insegnamento all’università; ma non vuole
lasciare le sue studentesse, per cui organizza un seminario da tenersi ogni
giovedì mattina presso la sua abitazione. Il libro, pur non essendo un testo di
narrativa, risulta lo stesso avvincente e affascinante: esso mette assieme il
racconto della difficile vita nella Teheran del regime degli ayatollah, tra
arresti, bombardamenti, restrizioni alla libertà personale soprattutto per le
donne, con la narrazione degli incontri tra Nafisi e le sue allieve.
Durante questi
incontri si parla di letteratura, di grandi autori come Nabokov, Saul Bellow, Jane
Austen, Henry James, non per “sfuggire” a una realtà difficile, bensì per
viverla soffrendo il meno possibile. Difatti, nessuno di coloro che partecipano
a questi incontri nasconde la realtà, si tratti di quella politica o di quella
personale. Non si tratta di una fuga dal reale perché la realtà, drammatica,
avvolge sempre l’autrice, ma di un modo diverso, reso più intenso dalla
letteratura, di vivere, di amare i propri familiari, di provare terrore. In una
pagina del libro, Nafisi scrive per esempio, a proposito di Fitzgerald autore
de The Great Gatsby: “Un grande
romanzo acuisce le vostre percezioni, vi fa sentire la complessità della vita e
degli individui, e vi difende dall’ipocrita certezza nella validità delle
vostre opinioni, nella morale a compartimenti stagni…”.
Secondo l’autrice
i guardiani della Rivoluzione iraniana temono che gli scrittori, se non si
dichiarano fedeli all’Islam, siano dei corruttori della morale. In tal modo,
però, essi esagerano il potere dei libri e della scrittura. In questo modo non
fanno altro che corroborare l’opinione di Nafisi sulla letteratura come
essenziale strumento democratico, non perché essa si debba occupare di
democrazia o di politica, ma perché, grazie all’immaginazione e alle parole del
libro che leggiamo, noi possiamo comprendere tutti i personaggi della storia e
rispettarli nella loro complessità. Il messaggio “democratico” dei libri è in
sostanza legato alla loro capacità di dare voce alla molteplicità dei personaggi
che in essi agiscono. L’immaginazione è un potente alleato di chi legge. Un
grande libro è quello che muove il lettore alla comprensione delle vicende dei
personaggi, anche di quelli riprovevoli; prima della condanna, della simpatia o
dell’antipatia, il lettore, se legge un buon libro, avvertirà in sé il
desiderio di capire a fondo la complessità della trama e dei personaggi. In
altre parole, rifuggirà i pregiudizi e si disporrà, con animo laico, alla
comprensione. Dovrebbe succedere così anche quando ci rivolgiamo ai “personaggi
reali”, alla nostra vita quotidiana; per questo un buon libro insegna non
perché indica cosa è bene o cosa è male, ma perché spiega che prima del
giudizio dovrebbe esistere la comprensione piena di quel che si intende giudicare.
Come cittadina
di un regime diffidente verso l’arte e la letteratura, l’autrice pone diverse
volte la questione della relazione tra la letteratura e il potere. I potenti iraniani
hanno un rapporto ambivalente con la letteratura; da un lato, essi ostentano
disprezzo verso gli artisti, accusati talvolta di bassezza morale o di non
produrre nulla di concreto e utile per la società. Dall’altro lato, però, i
potenti temono gli artisti, i quali sono spesso tra i primi a venire colpiti,
arrestati o peggio uccisi. Per esempio, secondo i guardiani della rivoluzione
iraniana, il capolavoro di Nabokov, Lolita,
corrompe i giovani. Ma chi ama i libri, scrive l’autrice, sa che non è così: un
romanziere non è un pedagogo, e non corrompe nulla, né insegna alcunché. Egli
può far capire che i valori assoluti, le fedi dogmatiche, le credenze
consolidate, i giudizi netti e perentori, non appartengono al mondo degli
uomini. Uno scrittore dovrebbe acuire i contrasti presenti nella società,
denunciarne i problemi, non limitarsi a esaltare e sacralizzare l’esistente,
come vorrebbero i potenti. E allora si scopre che non è sempre vero che
l’artista è, per definizione, un uomo “contro” i regimi dittatoriali; perché,
per tanti letterati che hanno combattuto per la libertà, opponendosi alle
dittatura, ce ne sono diversi che si sono prestati a sostenere i regimi
dittatoriali. I libri che meritano di essere letti non sono quelli che
distraggono, né quelli che si propongono di insegnare qualcosa sul mondo o
sulla vita, ma quelli che offrono uno strumento critico per valutare il mondo,
dice l’autrice, “non solo il nostro, anche l’altro, l’oggetto dei nostri
desideri” (p. 314). Il testo racconta di una lettura sotto un bombardamento,
durante gli anni della guerra tra Iran e Iraq.
«Attenzione!
Attenzione! Allarme rosso! Scendete immediatamente nei rifugi!». A volte mi
domando se, e quando, smetterò mai di sentire l’eco di quella sirena — un suono
stridulo che mi fa venire i brividi. Mi risulta tuttora impossibile scindere il
ricordo degli otto anni di guerra da quell’urlo lacerante che varie volte al
giorno, nei momenti più inaspettati, invadeva la nostra vita. I livelli di
allarme erano tre, rosso (pericolo), giallo (possibilità di pericolo) e bianco
(cessato pericolo), ma non sono mai riuscita a distinguerli. In un certo senso,
anche nel suono della sirena bianca si annidava una minaccia. Di solito
l’allarme rosso suonava troppo tardi, con la bomba già sganciata o il missile
già in volo, e in ogni caso neppure all’università esistevano veri rifugi.
Le incursioni aeree su
Teheran sono impossibili da dimenticare, e per tanti motivi, non ultimo le
amicizie improvvise che ne nascevano. In più di un’occasione, semplici
conoscenti che avevamo invitato a cena si ritrovarono a passare la notte da
noi; a volte erano una decina, anche di più, e al mattino era come se ci frequentassimo
da una vita. E le notti insonni! In casa nostra ero quella che dormiva di meno.
Volevo stare vicina ai bambini, in modo tale che fossimo tutti insieme se
succedeva qualcosa. Durante le incursioni mio marito dormiva, o almeno ci
provava, mentre io prendevo due cuscini, qualche candela e il mio libro e
andavo a sdraiarmi nel corridoio che separava la stanza dei bambini dalla
nostra. Pensavo che se fossi rimasta sveglia avrei potuto, con la forza del
pensiero, deviare le bombe.
Una notte mi svegliai
di soprassalto: dovevano essere le tre o le quattro, e la casa era immersa nel
buio. Mi affacciai alla finestra e vidi che mancava la luce: i lampioni erano
spenti. Accesi la torcia. Qualche minuto dopo ero già in corridoio, coi cuscini
appoggiati al muro, due candele accese e il libro. Sentii un’esplosione. Col
cuore in gola mi premetti la mano sulla pancia, d’istinto, proprio come facevo
durante i bombardamenti quando ero incinta. Provai a far finta di niente, e
abbassai il cono di luce della torcia su una pagina di Daisy Miller.
Fu in quel periodo che,
leggendo certi autori, senza rendermene conto ripresi in mano carta e penna,
anche se non avevo mai perso del tutto la piacevole abitudine studentesca di
sottolineare brani e prendere appunti. Molte delle mie note su Orgoglio e
pregiudizio, Washington Square, Cime tempestose, Madame Bovary e Tom Jones
sono frutto di quelle notti insonni, in cui il terrore delle bombe e dei
missili rendeva la concentrazione quasi febbrile.
Avevo appena cominciato
Daisy Miller e stavo leggendo del giovane americano europeizzato,
Winterbourne, che incontra in Svizzera l’incantevole e enigmatica Miss Daisy.
Winterbourne rimane affascinato da quella bella ragazza americana -
superficiale e volgare per alcuni, innocente e ragazza «seria» o «leggera». La
storia ruota intorno all’incapacità di Winterbourne di scegliere tra Daisy, con
la sua indifferenza all’etichetta, e la comunità di americani snob che
preferiscono ignorare la ragazza. La scena che stavo leggendo si svolge dopo che
Daisy ha chiesto a Winterbourne di presentarla alla sua aristocratica zia.
Winterbourne tenta di informarla, con la massima delicatezza possibile, che sua
zia non vuole riceverla. « Daisy Miller si fermò e lo guardò dritto in
faccia. La bellezza di lei era visibile pur nell’oscurità; apriva e chiudeva
l’enorme ventaglio. “Sua zia non desidera conoscermi!” esclamò a un tratto.
“Perché non me lo dice francamente?”».
Sentii il fragore di
un’altra esplosione. Avevo sete, ma non riuscivo ad alzarmi e andare a prendere
da bere. Altre due deflagrazioni. Continuai a leggere, spostando ogni tanto lo
sguardo dal libro al corridoio. Con la guerra e i bombardamenti la mia paura
del buio, che ho sempre avuto, era passata in secondo piano. In una scena che
ricorderò sempre — non solo per via di quella notte — Daisy dice a
Winterbourne: «“Non abbia paura. Io non ne ho”. E fece una risatina. A
Winterbourne parve di cogliere un tremito nella sua voce; ne fu commosso,
turbato, mortificato. “Signorina cara,” protestò “mia zia non vede nessuno. E
la sua sciagurata salute”. La ragazza avanzò di qualche passo, ridendo ancora.
“Non abbia paura” ripeté».
C’è tanto coraggio in
quella frase, e anche ironia, perché ciò che Winterbourne teme davvero non è la
zia ma il fascino di Miss Daisy. Per un attimo credo di essere riuscita davvero
a non pensare alle bombe, perché le parole «Non abbia paura» sono sottolineate.
Subito dopo, quasi in
contemporanea, mia figlia mi chiamò dalla sua camera, suonò il telefono e
qualcuno bussò alla porta. Raccolsi una candela e mi diressi verso il telefono,
dicendo a Negar che stavo arrivando. Nello stesso istante si aprì la porta: era
mia madre, anche lei con una candela in mano. Mi domandò: « Stai bene?
Non aver paura! »; ormai era diventato un rito: quasi sempre, di notte,
sotto i bombardamenti, mia madre entrava in casa nostra con una candela. Andò
lei in camera di mia figlia, e io risposi al telefono. Era un’amica; voleva
sapere se stavamo bene. Le era sembrato che le esplosioni provenissero dal nostro
quartiere. Anche quello era diventato un rito, chiamare amici e familiari per
assicurarsi che fossero in salvo, sapendo che il proprio sollievo significava
la morte di qualcun altro.
Durante quelle notti di
allarmi bianchi e rossi tracciai senza nemmeno accorgermene il percorso della
mia carriera futura. Quando ricominciai a insegnare, infatti, scoprii di aver
già pronti due corsi sul romanzo, e nei quindici anni successivi studiai e
insegnai soprattutto narrativa. Se fosse possibile conservare un suono come si
fa con una foglia o una farfalla, direi che tra le pagine della mia copia di Orgoglio
e pregiudizio - uno dei romanzi più polifonici che esistano - e in quella
di Daisy Miller è custodito come una foglia d’autunno l’urlo della
sirena dell’allarme rosso.
Le sirene, la voce
metallica che ci intimava di fare attenzione, i sacchi di sabbia per le strade,
e le bombe, di solito la mattina presto o dopo mezzanotte; poi gli intervalli
più o meno brevi tra un bombardamento e l’altro, Jane Austen e Henry James e le
aule al quarto piano dell’edificio che ospitava la Facoltà di Persiano e di
Lingue e Letterature Straniere. Le aule erano disposte su due file in un
corridoio lungo e stretto; da un lato si affacciavano sulle montagne, che non
erano poi così lontane, dall’altro su un giardino un po’ triste ma bello,
sempre piuttosto trascurato, con una piccola fontana che aveva al centro una
statua scheggiata. Intorno alla fontana, cespugli e fiori che disegnavano
cerchi e riquadri, e poi gli alberi. I fiori sembravano cresciuti a casaccio:
qualche bella rosa, grandi dalie e alcuni narcisi. Tutte le volte che lo
guardavo mi sembrava che quel giardino non appartenesse all’università ma fosse
uscito dalle pagine di un romanzo di Hawthorne.
Adesso ogni apparizione
in pubblico era preceduta da un mio rituale, che seguivo scrupolosamente. Non
usavo mai trucco, neanche un filo, e per quanto possibile nascondevo il corpo
sotto una maglietta e un paio di pantaloni neri informi. Sopra mettevo la veste
nera lunga e il velo dello stesso colore, che mi avvolgevo intorno al collo.
Riempivo la borsa — sempre troppo di libri e di appunti; molto di quel che
c’era dentro non mi serviva nemmeno, però lo portavo lo stesso; mi dava
sicurezza.
Non so perché, ma ho un
ricordo confuso del percorso da casa mia all’università. Come per magia, senza
superare il cancello verde e la garitta del custode, senza passare dalla porta
a vetri che conduceva nell’edificio, né davanti ai cartelli che insultavano la
cultura occidentale, mi ritrovo in fondo alle scale della facoltà.
Mentre salgo, cerco di
non far caso ai manifesti e ai cartelli appesi disordinatamente alle pareti. Si
tratta più che altro di fotografie in bianco e nero dal fronte iracheno, e di
slogan che accusano il Grande Satana, vale a dire l’America, e i suoi emissari.
Citazioni dell’ayatollah Khomeini - LA
VITTORIA È
NOSTRA NELLA STRAGE DEI NEMICI O NEL
MARTIRIO! LE UNIVERSITÀ DEVONO ESSERE ISLAMICIIE! LA GUERRA È UN DONO
DI ALLAH! - accompagnano le fotografie.
Non sono mai riuscita a
reprimere la rabbia che mi facevano quelle fotografie sbiadite, appese e poi
dimenticate sulle pareti color crema, quegli slogan pieni di rimproveri, sempre
e solo di rimproveri: sul colore dei vestiti, sul modo di comportarsi e su
tutto il resto. Mai un avviso su una conferenza, un film o la presentazione di
un libro.
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