sabato 25 maggio 2019

Divina Commedia, Inferno, Canto I - Riassunto

Edizioni di riferimento:
N. Sapegno, La Divina Commedia. Inferno, La Nuova Italia, 1955-1993
G. Inglese, Commedia. Inferno, Carocci, 2016


Il primo canto dell’Inferno presenta il poeta che, al momento dell’equinozio di primavera del 1330, si ritrova in una selva oscura che gli incute terrore. È un inizio che colpisce perché non ci sono né prodromi né introduzioni: esso ci presenta il poeta già del tutto immerso nella sua spaventosa condizione. Dante è caduto nel peccato, nello stato di chi non sa più quale sia la verità e rischia di perdere sé stesso. La selva oscura, con la sua tenebrosità e la sua asprezza, è la perfetta allegoria di questa condizione peccaminosa. Ma il discorso di Dante non è solo personale: egli infatti osserva nella società in cui vive (lui esule, bandito da Firenze) un traviamento morale che arriva a toccare la Chiesa stessa. Solo una rigenerazione morale, personale e universale, potrà porre fine a questo momento di disorientamento, restaurando i valori cristiani.
Il pellegrino, atterrito e smarrito nella selva oscura, a un certo punto scorge un colle la cui sommità è illuminata dal sole che sta sorgendo. Mentre il colle rappresenta un’immagine di salvezza e la prefigurazione di una vita secondo virtù, la luce del sole simboleggia la Grazia divina, senza la quale l’uomo non può salvarsi. Tuttavia, proprio mentre Dante avverte il sollievo derivante dalla visione della luce del sole che illumina il colle e proprio mentre osserva dietro di sé la selva come qualcosa che non lo riguarda più, ecco che tre “fiere” ostacolano il suo cammino. I tre animali rappresentano i tre peccati (lussuria, superbia e avarizia) che impediscono all’uomo di raggiungere la salvezza, di vivere secondo virtù, alimentando il suo traviamento morale.
Spaventato dalla visione delle tre fiere che gli chiudono la via verso la salvezza, Dante ricade nell’abbattimento. Ma il soccorso giunge nella figura del grande poeta latino Virgilio. Questi è giunto per condurre Dante alla salvezza, ma la via attraverso cui egli lo condurrà non sarà affatto comoda. Soltanto visitando il regno dei dannati (l’inferno) e dei penitenti (purgatorio), Dante potrà infatti redimersi, rendendosi conto dei propri peccati, fino a giungere alla beatitudine paradisiaca con l’aiuto di un’anima più degna, ossia di Beatrice. Virgilio spiega che la via più breve verso la salvezza (ossia la salita verso il colle illuminato dal sole) è preclusa perché la lupa, simbolo dell’avarizia, ha in quel momento nel mondo tanti adepti; questa condizione di desolazione morale della società e della chiesa permarrà finché non arriverà qualcuno (si tratta della profezia del “veltro”, il cui significa è oscuro) a ricacciare nell’inferno il terribile animale.

Luogo: la selva oscura: “Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura, / ché la diritta via era smarrita. / Ahi quanto a dir qual era è cosa dura [=difficile] / esta selvaggia e aspra e forte, / che nel pensier rinova la paura” (vv. 1-6).
Momenti:
La selva oscura, simbolo del traviamento intellettuale e morale di D. e della corruzione della cristianità. Il protagonista non sa dire quando sia cominciato tale oscuramento morale. D. sa solo dire che l’anima era avvolta in un “sonno”, un intorpidimento della virtù dovuta al peccato: “Io non so ben ridir com’i’ v’entrai, / tant’era pien di sonno a quel punto / che la verace via abbandonai” (vv. 10-12).
Il colle illuminato dal sole. Tale visione dona sollievo a D., il quale ora osserva dietro di sé la selva con minore paura. Il colle baciato dal sole simboleggia la vita colma di virtù, base della felicità solo se illuminata dalla Grazia divina. “Ma poi ch’i’ fui al piè di un colle giunto, / là dove terminava quella valle / che m’avea di paura il cor compunto [=amareggiato], / guardai in alto, e vidi le sue spalle / vestite già de’ raggi del pianeta [=del sole] / che mena dritto altrui per calle. / Allor fu la paura un poco queta / […] / l’animo mio, ch’ancor fuggiva, / si volse a retro [=dietro] a rimira lo passo [=la selva]/ che non lasciò già mai persona viva” (vv. 13-27).
Incontro con le tre “fiere”. Esse impediscono a D. la possibilità di uscire dalla selva, ossia di superamento la condizione di traviamento morale. Questi animali, simboli di tre peccati gravi, rappresentano gli ostacoli terreni che precludono all’uomo la via della salvezza.
·         Una “lonza leggiera e presta [=veloce] molto” (v. 32, peccato di lussuria).
·         Un leone “con la testa alta e con rabbiosa fame” (v. 47, peccato di superbia).
·         Una lupa “che di tutte le brame / sembrava carca nella sua magrezza” (vv. 49-50, peccato di avarizia).
      Incontro con Virgilio (v. oltre).
      Profezia del “veltro”. La profezia è poco chiara. Il veltro è un cane da caccia. V., esprimendo questa profezia, sembra preconizzare l’avvento di un uomo (l’imperatore?) per restituire pace all’Italia e moralità alla Chiesa. D. stesso spera infatti che il futuro porti l’avvento di un nuovo impero romano e cristiano, ossia di colui che restaurerà la grandezza dell’Italia. Tale personaggio “non ciberà terra né peltro [=non sarà avido di dominio né di ricchezza[1]], / ma sapienza, amore e virtute, / e sua nazion sarà tra feltro e feltro[2]: / di quella umile Italia fia salute… [a quella umile Italia darà salvezza]” (vv. 103-106).

Personaggi
Virgilio. Il grande poeta latino visse tra il 70 e il 19 a. C., dunque non conobbe la religione cristiana e perciò fu un pagano. È considerato il più grande poeta latino, autore dell’Eneide, un’opera che collega le origini di Roma e della gens Iulia, quella di Cesare e poi dell’imperatore Augusto, alla civiltà greca. V. è per D. fonte d’ispirazione, sia per il poema che scrisse, sia per la sua condotta di vita. V. è al contempo un maestro e un modello poetico.
Dice infatti D.: “O de li altri poeti onore e lume, / vagliami ‘l lungo studio e ‘l grande amore / che m’ha fatto cercar lo tuo volume [=le tue opere]. / Tu se’ lo mio maestro e ‘l mio autore, / tu se’ solo colui da cu’ io tolsi / lo bello stilo che m’ha fatto onore. / Vedi la bestia per cu’ io mi volsi: / aiutami da lei, famoso saggio, / ch’ella mi fa tremare le vene e i polsi” (vv. 79-90).
V. spiega a D. che dovrà uscire dalla selva non per la via dalla quale è venuto, ma seguendo un’altra direzione, più lunga e ardua: “A te conviene tenere altro viaggio, / […], se vuo’ campar [=salvarti] d’esto loco selvaggio” (vv. 91-94). Solo grazie alla salda luce della ragione, rappresentata da V., D. potrà uscire da una condizione di desolazione che lo sta conducendo alla morte.



[1]  Il peltro è una lega di metalli non preziosi; insomma, questo personaggio non amerà né il possesso di terre né le ricchezze, anche quelle poco preziose.
[2]  Il significato del verso “sua nazion sarà tra feltro e feltro” è oscuro ed è stato soggetto a varie interpretazioni. Il Sapegno propende per la spiegazione più antica: “avrà D. voluto dire che il veltro nascerà da umile origine, o sarà prescelto tra i francescani e ne seguirà la regola di povertà?” Il “feltro” è infatti un panno di umile qualità. G. Inglese invece dà a questa frase un’interpretazione “geografica”: “‘tra Feltre, nel Bellunese, e Montefeltro’, per dire ‘nella valle del Po’; si rammenti che l’Imperatore, prima della consegna definitiva a Roma, doveva cingere la corona d’Italia a Milano”.

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