Edizioni di riferimento:
N.
Sapegno, La Divina Commedia. Inferno,
La Nuova Italia, 1955-1993
G.
Inglese, Commedia. Inferno, Carocci,
2016
Il primo canto dell’Inferno
presenta il poeta che, al momento dell’equinozio di primavera del 1330, si
ritrova in una selva oscura che gli incute terrore. È un inizio che colpisce
perché non ci sono né prodromi né introduzioni: esso ci presenta il poeta già
del tutto immerso nella sua spaventosa condizione. Dante è caduto nel peccato,
nello stato di chi non sa più quale sia la verità e rischia di perdere sé
stesso. La selva oscura, con la sua tenebrosità e la sua asprezza, è la
perfetta allegoria di questa condizione peccaminosa. Ma il discorso di Dante
non è solo personale: egli infatti osserva nella società in cui vive (lui
esule, bandito da Firenze) un traviamento morale che arriva a toccare la Chiesa
stessa. Solo una rigenerazione morale, personale e universale, potrà porre fine
a questo momento di disorientamento, restaurando i valori cristiani.
Il pellegrino, atterrito e
smarrito nella selva oscura, a un certo punto scorge un colle la cui sommità è
illuminata dal sole che sta sorgendo. Mentre il colle rappresenta un’immagine
di salvezza e la prefigurazione di una vita secondo virtù, la luce del sole
simboleggia la Grazia divina, senza la quale l’uomo non può salvarsi. Tuttavia,
proprio mentre Dante avverte il sollievo derivante dalla visione della luce del
sole che illumina il colle e proprio mentre osserva dietro di sé la selva come
qualcosa che non lo riguarda più, ecco che tre “fiere” ostacolano il suo
cammino. I tre animali rappresentano i tre peccati (lussuria, superbia e
avarizia) che impediscono all’uomo di raggiungere la salvezza, di vivere
secondo virtù, alimentando il suo traviamento morale.
Spaventato dalla visione delle tre
fiere che gli chiudono la via verso la salvezza, Dante ricade
nell’abbattimento. Ma il soccorso giunge nella figura del grande poeta latino
Virgilio. Questi è giunto per condurre Dante alla salvezza, ma la via
attraverso cui egli lo condurrà non sarà affatto comoda. Soltanto visitando il
regno dei dannati (l’inferno) e dei penitenti (purgatorio), Dante potrà infatti
redimersi, rendendosi conto dei propri peccati, fino a giungere alla beatitudine
paradisiaca con l’aiuto di un’anima più degna, ossia di Beatrice. Virgilio
spiega che la via più breve verso la salvezza (ossia la salita verso il colle
illuminato dal sole) è preclusa perché la lupa, simbolo dell’avarizia, ha in
quel momento nel mondo tanti adepti; questa condizione di desolazione morale
della società e della chiesa permarrà finché non arriverà qualcuno (si tratta
della profezia del “veltro”, il cui significa è oscuro) a ricacciare
nell’inferno il terribile animale.
Luogo: la selva
oscura: “Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva
oscura, / ché la diritta via era smarrita. / Ahi quanto a dir qual era è
cosa dura [=difficile] / esta
selvaggia e aspra e forte, / che nel pensier rinova la paura” (vv. 1-6).
Momenti:
La selva oscura, simbolo
del traviamento intellettuale e morale di D. e della corruzione della
cristianità. Il protagonista non sa dire quando sia cominciato tale oscuramento morale. D. sa solo dire che
l’anima era avvolta in un “sonno”, un intorpidimento della virtù dovuta al
peccato: “Io non so ben ridir com’i’ v’entrai, / tant’era pien di sonno a quel
punto / che la verace via abbandonai” (vv. 10-12).
Il colle illuminato dal sole. Tale
visione dona sollievo a D., il quale ora osserva dietro di sé la selva con minore
paura. Il colle baciato dal sole simboleggia la vita colma di virtù, base della
felicità solo se illuminata dalla Grazia divina. “Ma poi ch’i’ fui al piè di un colle
giunto, / là dove terminava quella valle / che m’avea di paura il cor compunto
[=amareggiato], / guardai in alto, e
vidi le sue spalle / vestite già de’ raggi del pianeta [=del sole] / che mena dritto altrui per calle. / Allor fu la paura
un poco queta / […] / l’animo mio, ch’ancor fuggiva, / si volse a retro [=dietro] a rimira lo passo [=la selva]/ che non
lasciò già mai persona viva” (vv. 13-27).
Incontro con le tre “fiere”. Esse
impediscono a D. la possibilità di uscire dalla selva, ossia di superamento la condizione di traviamento morale. Questi animali, simboli
di tre peccati gravi, rappresentano gli ostacoli terreni che precludono
all’uomo la via della salvezza.
·
Una “lonza leggiera e presta [=veloce] molto” (v. 32, peccato
di lussuria).
·
Un leone “con la testa alta e con rabbiosa fame”
(v. 47, peccato di superbia).
·
Una lupa “che di tutte le brame / sembrava carca
nella sua magrezza” (vv. 49-50, peccato
di avarizia).
Incontro con Virgilio (v. oltre).
Profezia del “veltro”. La
profezia è poco chiara. Il veltro è un cane da caccia. V., esprimendo questa
profezia, sembra preconizzare l’avvento di un uomo (l’imperatore?) per
restituire pace all’Italia e moralità alla Chiesa. D. stesso spera infatti che
il futuro porti l’avvento di un nuovo impero romano e cristiano, ossia di colui
che restaurerà la grandezza dell’Italia. Tale personaggio “non ciberà terra né
peltro [=non sarà avido di dominio né di
ricchezza[1]],
/ ma sapienza, amore e virtute, / e sua nazion sarà tra feltro e feltro[2]:
/ di quella umile Italia fia salute… [a
quella umile Italia darà salvezza]” (vv. 103-106).
Personaggi
Virgilio. Il grande
poeta latino visse tra il 70 e il 19
a . C., dunque non conobbe la religione cristiana e
perciò fu un pagano. È considerato il più grande poeta latino, autore dell’Eneide, un’opera che collega le origini
di Roma e della gens Iulia, quella di
Cesare e poi dell’imperatore Augusto, alla civiltà greca. V. è per D. fonte
d’ispirazione, sia per il poema che scrisse, sia per la sua condotta di vita.
V. è al contempo un maestro e un modello poetico.
Dice
infatti D.: “O de li altri poeti
onore e lume, / vagliami ‘l lungo studio e ‘l grande amore / che m’ha fatto
cercar lo tuo volume [=le tue opere].
/ Tu se’ lo mio maestro e ‘l mio autore, / tu se’ solo colui da cu’ io tolsi /
lo bello stilo che m’ha fatto onore. / Vedi la bestia per cu’ io mi volsi: /
aiutami da lei, famoso saggio, / ch’ella mi fa tremare le vene e i polsi” (vv.
79-90).
V. spiega a D. che dovrà uscire dalla selva non per la via dalla quale è
venuto, ma seguendo un’altra direzione, più lunga e ardua: “A te conviene
tenere altro viaggio, / […], se vuo’ campar [=salvarti] d’esto loco selvaggio” (vv. 91-94). Solo grazie alla
salda luce della ragione, rappresentata da V., D. potrà uscire da una
condizione di desolazione che lo sta conducendo alla morte.
[1] Il peltro è una lega di metalli non preziosi;
insomma, questo personaggio non amerà né il possesso di terre né le ricchezze,
anche quelle poco preziose.
[2] Il significato del verso “sua nazion sarà tra
feltro e feltro” è oscuro ed è stato soggetto a varie interpretazioni. Il
Sapegno propende per la spiegazione più antica: “avrà D. voluto dire che il
veltro nascerà da umile origine, o sarà prescelto tra i francescani e ne
seguirà la regola di povertà?” Il “feltro” è infatti un panno di umile qualità.
G. Inglese invece dà a questa frase un’interpretazione “geografica”: “‘tra
Feltre, nel Bellunese, e Montefeltro’, per dire ‘nella valle del Po’; si
rammenti che l’Imperatore, prima della consegna definitiva a Roma, doveva
cingere la corona d’Italia a Milano”.
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