Benché si tratti di un romanzo, il libro
di Antonio Scurati è una ricostruzione delle vicende politiche (e in
parte umane) di Benito Mussolini e di altri personaggi, fascisti e non, negli anni 1919-1925. Il romanzo si
apre il 23 marzo 1919, giorno della fondazione dei fasci di combattimento a
Milano (un avvenimento che ebbe scarsissima risonanza e a cui parteciparono
poche decine di persone) e si chiude il 3 gennaio 1925, il giorno in cui
Mussolini, in Parlamento, fece il celebre discorso in cui si assunse tutta la
responsabilità morale e politica di quella che, fino a quel momento, era stato
il fascismo. Fu un discorso terribilmente audace e duro, che ebbe l'effetto di
ricompattare le file fasciste e di consentire al partito e al regime due mosse
cariche di conseguenze per il futuro. La prima fu il superamento della più
grave crisi politica che il regime avrebbe attraversato, quella
seguita al delitto Matteotti; una crisi che condusse il fascismo sull’orlo
della caduta (ma né le opposizioni né, soprattutto, il re Vittorio Emanuele III,
vollero dare la spallata al governo Mussolini); la seconda conseguenza fu l’inizio
della instaurazione della dittatura vera e propria, con l’approvazione di leggi
che cancellarono ogni garanzia politica (libertà di opinione e di stampa),
esautorarono il parlamento, concentrando tutto il potere nella mani del
dittatore.
La forma del romanzo consente a Scurati
di sganciarsi dall’aderenza storica ai fatti, in nome dell’arte; ma attenzione,
il romanzo non inventa nulla, poiché si percepisce che l’autore si è
documentato. Tuttavia, la forma romanzata consente all’autore di poter entrare
nella mente dei personaggi, di immaginare i loro pensieri, dato che raramente
questi sono stati trasferiti sui diari che pure occupano una parte rilevante della
storiografia sul fascismo.
Scurati adotta una formula diaristica in
terza persona. Il libro si divide in sei parti, una per ogni anno dal 1919 al 1924. All'interno di ogni anno ci sono parti che s'intitolano secondo un nome, un luogo geografico (o
fisico) e una data. Ed ecco che agli occhi del lettore scorrono le vicende di
uomini politici e non. Si osserva la lenta aggregazione tra i molti delusi per il
trattamento riservato all’Italia uscita vincitrice ma prostrata dalla
Prima Guerra Mondiale; la fusione tra nazionalismo e fascismo. Si legge il racconto dell’occupazione di
Fiume da parte del poeta Gabriele d’Annunzio: questo atto, salutato da
nazionalisti e arditi come eroico e come un atto di rivendicazione di un
territorio che molti consideravano italiano, è visto da Mussolini, al solito,
non con gli occhi dell’idealismo, ma con quelli del pragmatismo e dell’opportunismo.
D’Annunzio è certamente stato un uomo decisivo nel fornire al fascismo alcuni
riti e simboli: il famoso “a noi”, il grido “eia, eia, alalà”, la retorica
nazionalista, il riferimento all’antica Roma, l’inquadramento in milizie degli
uomini, le adunate oceaniche; tuttavia, il dannunzianesimo, col il suo spirito
romantico, il titanismo, l’allergia ai compromessi, ben presto è diventato per
Mussolini, ansioso di accreditarsi come uomo politico affidabile agli occhi del
regime liberale italiano, un peso, un ostacolo sulla strada dell’ascesa al potere.
Un altro protagonista del libro, vero e
proprio alter ego di Mussolino, è il deputato socialista Giacomo Matteotti,
irriducibile nel denunciare, anche nel 1924 in un parlamento ormai
fascistizzato, non solo le violenze squadriste, ma anche i trucchi contabili messi
in atto dal governo Mussolini per ottenere il pareggio del bilancio. Assassinato
da sicari fascisti nel giugno di quell’anno, il ritrovamento del suo cadavere
il 16 agosto 1924 scatena una reazione che sembra poter condurre alla caduta
del fascismo. Nonostante i responsabili siano arrestati e processati, Mussolini
ne esce “pulito”. Non è chiaro se egli fu il mandante materiale dell’assassinio,
anche se di certo ne fu il mandante morale. Scurati racconta che il Duce, dopo
aver ascoltato i discorso di Matteotti, abbia infatti esclamato: “Cosa fa Dùmini, cosa
fa questa Ceka? È inammissibile che dopo un discorso del genere quell’uomo
possa ancora circolare!” (p. 751).
Quale ritratto esce di Mussolini da
questo libro? E qual è l’immagine dell’Italia di cento anni fa che il lettore
può trarre? Quale fu il ruolo del decadente regime liberale? E cosa fecero i
capi socialisti e comunisti di fronte all’avanzata del fascismo?
Mussolini è stato senz’altro il più scaltro, spregiudicato e opportunista uomo politico italiano. Nel 1914, dopo un passato da socialista rivoluzionario, ateo, anti-borghese, anti-capitalista e pacifista, egli diviene improvvisamente un fervente interventista, abbracciando il
nazionalismo e la necessità che l’Italia partecipasse alla Prima Guerra
Mondiale. Espulso da Partito Socialista, nel 1919 fonda i fasci di
combattimento con un programma per certi aspetti molto di “sinistra”. In quel
momento Mussolini viveva una situazione di isolamento politico, addolcita solo dagli
incontri con la sua amante, Margherita Sarfatti. Scurati gli fa dire a Mussolini nel 1919: “Io sono
lo sbandato per eccellenza, il protettore degli smobilitati, lo sperduto alla
ricerca della strada. Ma l’azienda c’è e bisogna portarla avanti. In questa
sala semivuota, dilatate le narici, io fiuto il secolo” (p. 10).
Tuttavia, Mussolini è un uomo scaltro, capace
di cambiare idea da un momento all’altro, che sa accorgersi quale sia la direzione prevalente del
vento: dopo pochi mesi, di fronte all’avanzata del partito socialista, agli
scioperi, alla forza in apparenza straordinaria delle sinistre, l’uomo compie
un altro salto della quaglia: si allea con gli agrari e gli industriali,
rispolverando il mito della violenza. In questo caso però Mussolini non cambia
idea rispetto al suo passato: da socialista, infatti, egli era un sostenitore
della violenza politica. Solo che allora la indirizzava contro i padroni, mentre
ora, nel 1920-1921, la indirizza contro gli operai e i contadini. Lui però non
si sporca le mani, si limita a far capire quando è il momento di bastonare,
picchiare, perfino uccidere. E poi gli squadristi gli servono: sono come un
cane feroce da tenere al guinzaglio o da scatenare all’attacco a seconda dei
momenti. Essi consentono a Mussolini di mostrarsi alternativamente come
pacificatore o come uomo politico risoluto e determinato.
Buona parte del libro gioca proprio sulla
doppiezza di Mussolini: beneficiario, forse a volte a malincuore, della
terribile violenza degli squadristi nelle province rosse emiliane (in
particolare a Ferrara, dove il ras è Italo Balbo), e consapevole del fatto che,
arrivato al potere, lo squadrismo fascista sia qualcosa da debellare. Convinto inoltre
che l’individuo non sia nulla, ma che esso sia tale solo se inquadrato nella
massa: “La democrazia ha della vita una concezione prevalentemente politica. Il
fascismo è tutt’altra cosa. La sua concezione è guerriera […]. La disciplina
militare comprende quella politica” (p. 687). Per questo la violenza va
orientata ovvero organizzata, usata come una perenne minaccia contro gli
avversari. La violenza fascista organizzata si esemplifica nelle azioni di
Amerigo Dùmini, picchiatore e sicario fascista di professione.
L’altra cosa che serve al fascismo (oltre
ai soldi degli agrari e degli industriali, oltre alla debolezza e all’incapacità
dei liberali, oltre alla neutralità dei prefetti e dei questori, oltre alle
divisioni della sinistra) è la necessità di non darsi un’ideologia definita e
determinata, ma di ancorarsi a una sorta di ideologia fluida, duttile,
adattabile alle diverse circostanze storiche e politiche. Al contrario dei
marxisti, i quali agiscono in nome di un’idea, i fascisti danno preminenza all’azione
e poi, a cose fatte, eventualmente costruiscono un’idea. D’altra parte, un’ideologia
duttile consente di servirsi di persone che a loro volta non
possiedono idee nette (né sanno elaborarle), ma solo forza: nazionalisti, arditi, squadristi,
disperati, mezzi delinquenti, disoccupati, ex-anarchici ed ex-socialisti. Scrive
Scurati: “Chi sono i fascisti? Che cosa sono? Benito Mussolini, loro ideatore,
ritiene l’interrogativo ozioso. Sì certo … sono qualcosa di nuovo … qualcosa di
inaudito … un antipartito. Ecco… i fascisti sono un antipartito! Fanno dell’antipolitica.
Benissimo. Ma poi la ricerca dell’identità si deve fermare qui. L’importante è
essere qualcosa che permetta di evitare gli impacci della coerenza, la zavorra
dei principi. Le teorie, e la conseguente paralisi, Benito Mussolini le lascia
volentieri ai socialisti” (p. 66).
Nessuno in Italia, nemmeno i fascisti, si
rese conto che stava arrivando una dittatura. Non lo compresero le deboli forze
liberali, che anzi pensarono di poter addomesticare il fascismo, educarlo;
tanto è vero che quando Mussolini divenne presidente del Consiglio, egli
ricevette sostegno pieno dai liberali (tra cui il filosofo Benedetto Croce),
dai democratici, dai popolari di destra. Non lo comprese il re che, anche nei
giorni del delitto Matteotti ribadì la fiducia a Mussolini; non lo compresero
le forze di sinistra che, divise tra loro e in perenne lotta fratricida per la
supremazia sulla presunta rivoluzione bolscevica imminente, di fatto favorirono
l’ascesa del fascismo, arrendendosi ben presto alla violenza degli squadristi,
ai loro assassini, alle devastazioni di sedi di partiti e di giornali. La stessa marcia su Roma fu un sostanziale fallimento e se il re
avesse firmato il decreto di stato di assedio, già preparato dal governo in
carica, il fascismo non avrebbe preso il potere.
Forse
l’unico che fino alla fine volle veramente resistere al fascismo fu Matteotti. Benché
sempre più isolato anche nel suo partito, nel 1924 pubblicò un libro dove
elencava una per una le violenza dei fascisti. Inoltre, stava indagando su una
presunta tangente che il governo italiano aveva ricevuto dal gigante americano del
petrolio Sandard Oil, intenzionato ad assicurarsi la possibilità di cercare ed
estrarre il petrolio italiano.
Matteotti aveva capito tutto. Forse perché era un
deputato del Polesine, una delle terre dove la violenza dei fascisti era stata
più dura e spietata. Le parole che Matteotti pronunciò il 30 maggio 1924 alla
Camera dei Deputati, in quello che sarà il suo ultimi discorso parlamentare, emozionano
ancora oggi. Egli non si ritrasse di fronte alla violenza, non piegò la testa. Firmando
la sua condanna a morte, ha lasciato in eredità all’Italia post-fascista
e a quella di oggi una commovente testimonianza di dignità e fierezza: “Voi oggi che avete in
mano il potere e la forza, voi che vantate la vostra potenza, dovreste meglio
di tutti essere in grado di fare osservare la legge … se la libertà è data, ci
possono essere errori, eccessi momentanei, ma il popolo italiano, come ogni
altro, ha dimostrati di saperli correggere da se medesimo. Noi deploriamo
invece che si voglia dimostrare che solo il nostro popolo nel mondo non sa
reggersi da sé e deve essere governato con la forza. Molto danno avevano fatto
le dominazioni straniere. Ma il nostro popolo stava risollevandosi ed
educandosi. Voi lo ricacciate indietro” (pp. 748-749).
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