mercoledì 29 maggio 2019

"M. Il figlio del secolo", di Antonio Scurati, Bompiani 2019, pp. 840


Benché si tratti di un romanzo, il libro di Antonio Scurati è una ricostruzione delle vicende politiche (e in parte umane) di Benito Mussolini e di altri personaggi, fascisti e non, negli anni 1919-1925. Il romanzo si apre il 23 marzo 1919, giorno della fondazione dei fasci di combattimento a Milano (un avvenimento che ebbe scarsissima risonanza e a cui parteciparono poche decine di persone) e si chiude il 3 gennaio 1925, il giorno in cui Mussolini, in Parlamento, fece il celebre discorso in cui si assunse tutta la responsabilità morale e politica di quella che, fino a quel momento, era stato il fascismo. Fu un discorso terribilmente audace e duro, che ebbe l'effetto di ricompattare le file fasciste e di consentire al partito e al regime due mosse cariche di conseguenze per il futuro. La prima fu il superamento della più grave crisi politica che il regime avrebbe attraversato, quella seguita al delitto Matteotti; una crisi che condusse il fascismo sull’orlo della caduta (ma né le opposizioni né, soprattutto, il re Vittorio Emanuele III, vollero dare la spallata al governo Mussolini); la seconda conseguenza fu l’inizio della instaurazione della dittatura vera e propria, con l’approvazione di leggi che cancellarono ogni garanzia politica (libertà di opinione e di stampa), esautorarono il parlamento, concentrando tutto il potere nella mani del dittatore.
La forma del romanzo consente a Scurati di sganciarsi dall’aderenza storica ai fatti, in nome dell’arte; ma attenzione, il romanzo non inventa nulla, poiché si percepisce che l’autore si è documentato. Tuttavia, la forma romanzata consente all’autore di poter entrare nella mente dei personaggi, di immaginare i loro pensieri, dato che raramente questi sono stati trasferiti sui diari che  pure occupano una parte rilevante della storiografia sul fascismo. 
Scurati adotta una formula diaristica in terza persona. Il libro si divide in sei parti, una per ogni anno dal 1919 al 1924. All'interno di ogni anno ci sono parti che s'intitolano secondo un nome, un luogo geografico (o fisico) e una data. Ed ecco che agli occhi del lettore scorrono le vicende di uomini politici e non. Si osserva la lenta aggregazione tra i molti delusi per il trattamento riservato all’Italia uscita vincitrice ma prostrata dalla Prima Guerra Mondiale; la fusione tra nazionalismo e fascismo. Si legge il racconto dell’occupazione di Fiume da parte del poeta Gabriele d’Annunzio: questo atto, salutato da nazionalisti e arditi come eroico e come un atto di rivendicazione di un territorio che molti consideravano italiano, è visto da Mussolini, al solito, non con gli occhi dell’idealismo, ma con quelli del pragmatismo e dell’opportunismo. D’Annunzio è certamente stato un uomo decisivo nel fornire al fascismo alcuni riti e simboli: il famoso “a noi”, il grido “eia, eia, alalà”, la retorica nazionalista, il riferimento all’antica Roma, l’inquadramento in milizie degli uomini, le adunate oceaniche; tuttavia, il dannunzianesimo, col il suo spirito romantico, il titanismo, l’allergia ai compromessi, ben presto è diventato per Mussolini, ansioso di accreditarsi come uomo politico affidabile agli occhi del regime liberale italiano, un peso, un ostacolo sulla strada dell’ascesa al potere.
Un altro protagonista del libro, vero e proprio alter ego di Mussolino, è il deputato socialista Giacomo Matteotti, irriducibile nel denunciare, anche nel 1924 in un parlamento ormai fascistizzato, non solo le violenze squadriste, ma anche i trucchi contabili messi in atto dal governo Mussolini per ottenere il pareggio del bilancio. Assassinato da sicari fascisti nel giugno di quell’anno, il ritrovamento del suo cadavere il 16 agosto 1924 scatena una reazione che sembra poter condurre alla caduta del fascismo. Nonostante i responsabili siano arrestati e processati, Mussolini ne esce “pulito”. Non è chiaro se egli fu il mandante materiale dell’assassinio, anche se di certo ne fu il mandante morale. Scurati racconta che il Duce, dopo aver ascoltato i discorso di Matteotti, abbia infatti esclamato: “Cosa fa Dùmini, cosa fa questa Ceka? È inammissibile che dopo un discorso del genere quell’uomo possa ancora circolare!” (p. 751).
Quale ritratto esce di Mussolini da questo libro? E qual è l’immagine dell’Italia di cento anni fa che il lettore può trarre? Quale fu il ruolo del decadente regime liberale? E cosa fecero i capi socialisti e comunisti di fronte all’avanzata del fascismo?
Mussolini è stato senz’altro il più scaltro, spregiudicato e opportunista uomo politico italiano. Nel 1914, dopo un passato da socialista rivoluzionario, ateo, anti-borghese, anti-capitalista e pacifista, egli diviene improvvisamente un fervente interventista, abbracciando il nazionalismo e la necessità che l’Italia partecipasse alla Prima Guerra Mondiale. Espulso da Partito Socialista, nel 1919 fonda i fasci di combattimento con un programma per certi aspetti molto di “sinistra”. In quel momento Mussolini viveva una situazione di isolamento politico, addolcita solo dagli incontri con la sua amante, Margherita Sarfatti. Scurati gli fa dire a Mussolini nel 1919: “Io sono lo sbandato per eccellenza, il protettore degli smobilitati, lo sperduto alla ricerca della strada. Ma l’azienda c’è e bisogna portarla avanti. In questa sala semivuota, dilatate le narici, io fiuto il secolo” (p. 10).
Tuttavia, Mussolini è un uomo scaltro, capace di cambiare idea da un momento all’altro, che sa accorgersi quale sia la direzione prevalente del vento: dopo pochi mesi, di fronte all’avanzata del partito socialista, agli scioperi, alla forza in apparenza straordinaria delle sinistre, l’uomo compie un altro salto della quaglia: si allea con gli agrari e gli industriali, rispolverando il mito della violenza. In questo caso però Mussolini non cambia idea rispetto al suo passato: da socialista, infatti, egli era un sostenitore della violenza politica. Solo che allora la indirizzava contro i padroni, mentre ora, nel 1920-1921, la indirizza contro gli operai e i contadini. Lui però non si sporca le mani, si limita a far capire quando è il momento di bastonare, picchiare, perfino uccidere. E poi gli squadristi gli servono: sono come un cane feroce da tenere al guinzaglio o da scatenare all’attacco a seconda dei momenti. Essi consentono a Mussolini di mostrarsi alternativamente come pacificatore o come uomo politico risoluto e determinato.
Buona parte del libro gioca proprio sulla doppiezza di Mussolini: beneficiario, forse a volte a malincuore, della terribile violenza degli squadristi nelle province rosse emiliane (in particolare a Ferrara, dove il ras è Italo Balbo), e consapevole del fatto che, arrivato al potere, lo squadrismo fascista sia qualcosa da debellare. Convinto inoltre che l’individuo non sia nulla, ma che esso sia tale solo se inquadrato nella massa: “La democrazia ha della vita una concezione prevalentemente politica. Il fascismo è tutt’altra cosa. La sua concezione è guerriera […]. La disciplina militare comprende quella politica” (p. 687). Per questo la violenza va orientata ovvero organizzata, usata come una perenne minaccia contro gli avversari. La violenza fascista organizzata si esemplifica nelle azioni di Amerigo Dùmini, picchiatore e sicario fascista di professione.
L’altra cosa che serve al fascismo (oltre ai soldi degli agrari e degli industriali, oltre alla debolezza e all’incapacità dei liberali, oltre alla neutralità dei prefetti e dei questori, oltre alle divisioni della sinistra) è la necessità di non darsi un’ideologia definita e determinata, ma di ancorarsi a una sorta di ideologia fluida, duttile, adattabile alle diverse circostanze storiche e politiche. Al contrario dei marxisti, i quali agiscono in nome di un’idea, i fascisti danno preminenza all’azione e poi, a cose fatte, eventualmente costruiscono un’idea. D’altra parte, un’ideologia duttile consente di servirsi di persone che a loro volta non possiedono idee nette (né sanno elaborarle), ma solo forza: nazionalisti, arditi, squadristi, disperati, mezzi delinquenti, disoccupati, ex-anarchici ed ex-socialisti. Scrive Scurati: “Chi sono i fascisti? Che cosa sono? Benito Mussolini, loro ideatore, ritiene l’interrogativo ozioso. Sì certo … sono qualcosa di nuovo … qualcosa di inaudito … un antipartito. Ecco… i fascisti sono un antipartito! Fanno dell’antipolitica. Benissimo. Ma poi la ricerca dell’identità si deve fermare qui. L’importante è essere qualcosa che permetta di evitare gli impacci della coerenza, la zavorra dei principi. Le teorie, e la conseguente paralisi, Benito Mussolini le lascia volentieri ai socialisti” (p. 66).
Nessuno in Italia, nemmeno i fascisti, si rese conto che stava arrivando una dittatura. Non lo compresero le deboli forze liberali, che anzi pensarono di poter addomesticare il fascismo, educarlo; tanto è vero che quando Mussolini divenne presidente del Consiglio, egli ricevette sostegno pieno dai liberali (tra cui il filosofo Benedetto Croce), dai democratici, dai popolari di destra. Non lo comprese il re che, anche nei giorni del delitto Matteotti ribadì la fiducia a Mussolini; non lo compresero le forze di sinistra che, divise tra loro e in perenne lotta fratricida per la supremazia sulla presunta rivoluzione bolscevica imminente, di fatto favorirono l’ascesa del fascismo, arrendendosi ben presto alla violenza degli squadristi, ai loro assassini, alle devastazioni di sedi di partiti e di giornali. La stessa marcia su Roma fu un sostanziale fallimento e se il re avesse firmato il decreto di stato di assedio, già preparato dal governo in carica, il fascismo non avrebbe preso il potere.
Forse l’unico che fino alla fine volle veramente resistere al fascismo fu Matteotti. Benché sempre più isolato anche nel suo partito, nel 1924 pubblicò un libro dove elencava una per una le violenza dei fascisti. Inoltre, stava indagando su una presunta tangente che il governo italiano aveva ricevuto dal gigante americano del petrolio Sandard Oil, intenzionato ad assicurarsi la possibilità di cercare ed estrarre il petrolio italiano. 
Matteotti aveva capito tutto. Forse perché era un deputato del Polesine, una delle terre dove la violenza dei fascisti era stata più dura e spietata. Le parole che Matteotti pronunciò il 30 maggio 1924 alla Camera dei Deputati, in quello che sarà il suo ultimi discorso parlamentare, emozionano ancora oggi. Egli non si ritrasse di fronte alla violenza, non piegò la testa. Firmando la sua condanna a morte, ha lasciato in eredità all’Italia post-fascista e a quella di oggi una commovente testimonianza di dignità e fierezza: “Voi oggi che avete in mano il potere e la forza, voi che vantate la vostra potenza, dovreste meglio di tutti essere in grado di fare osservare la legge … se la libertà è data, ci possono essere errori, eccessi momentanei, ma il popolo italiano, come ogni altro, ha dimostrati di saperli correggere da se medesimo. Noi deploriamo invece che si voglia dimostrare che solo il nostro popolo nel mondo non sa reggersi da sé e deve essere governato con la forza. Molto danno avevano fatto le dominazioni straniere. Ma il nostro popolo stava risollevandosi ed educandosi. Voi lo ricacciate indietro” (pp. 748-749).

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