CANTO II
Nonostante l’apparizione rassicurante
di Virgilio, Dante è ancora scosso e disorientato. Egli si rivolge alle Muse
affinché lo soccorrano, poiché è consapevole dell'arduo e duplice compito che
lo attende. Descrivere i personaggi e gli ambienti di un posto terribile qual è
l’inferno e, al contempo, mostrare al lettore l’eccellenza delle sue capacità poetiche.
L’invocazione alle Muse, piuttosto convenzionale, non è un atto di
autocompiacimento né un mero artificio retorico, poiché nasce della
consapevolezza di quanto sarà difficile raccontare le cose terribili e
incredibili (nel vero senso del termine) che il regno dei dannati mostrerà al
poeta.
Dopo l’invocazione,
rivolgendosi a Virgilio per chiedere di essere confortato, Dante ottiene una
risposta che gli dona sollievo. Il poeta latino, infatti, gli comunica che il
viaggio nell’oltretomba è voluto direttamente da Dio, affinché Dante possa
testimoniare come un peccatore sia dannato in eterno oppure, se pentito
sinceramente, come possa “purgarsi” dei propri peccati e come infine, se ha
vissuto cristianamente, possa ascendere alla beatitudine del paradiso. Virgilio
aggiunge che è stata Beatrice stessa, colei che Dante amò finché fu viva di un
amore puro e disinteressato, a domandargli di prestare aiuto al suo “amico e
non della ventura”. La donna, assunta in cielo da Dio, non sapeva in quale
spaventosa condizione di smarrimento fosse caduto Dante, finché un’altra donna
dei cieli, Lucia, simbolo della grazia divina che illumina, non la ha avvertita
della necessità di salvare dal peccato e della perdizione un uomo che l’ha
tanto amata. Ascoltando queste parole, Dante sente crescere dentro di sé il
sollievo, sia perché è felice di ascoltare quanto Beatrice tenga a lui, sia
perché è rinfrancato dalla consapevolezza che il suo viaggio, per quanto arduo
e pericoloso, è voluto da Dio.
Luogo:
Antinferno.
Momenti:
a)
Proemio e invocazione alle Muse:
“Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno / toglieva li animai che sono in
terra / da le fatiche loro [=perché
il buio porta il sonno e il ristoro dalla fatica]; e io sol uno /
m’apparecchiava [=mi preparavo] a
sostener la guerra [=il faticoso cammino] /
sì del cammino e sì de la pietate, / che ritrarrà la mente che non erra [=che sarà descritto da una mente infallibile].
/ O muse, o alto ingegno, or m’aiutate; / o mente che scrivesti ciò ch’io
vidi, / qui si parrà [=mostrerà]
la tua nobilitate” (vv. 1-9).
b) Perplessità
di D. sulla sua capacità di uscire dalla selva.
Egli chiede a V.: “Poeta che mi guidi, / guarda la mia virtù s’ell’è possente
[=vedi se le mie capacità sono adeguate],
/ prima ch’all’alto passo tu mi fidi” (vv. 10-11). Il passo che D. deve
compiere è “alto” non solo perché arduo e mai compiuto da nessuno prima di
allora, ma soprattutto perché è voluto da Dio, affinché D. possa poi raccontare
del mondo ultraterreno, favorendo la rigenerazione morale di tutta l’umanità.
c) V.
rassicura D., raccontandogli che Beatrice stessa gli ha
raccomandato di aiutare il poeta, dicendo: “l’amico mio, e non della ventura, /
nella diserta piaggia è impedito / sì nel cammin che volt’è per paura […]. / Or
movi, e con la tua parola ornata e con ciò c’ha mestieri al suo campare /
l’aita sì ch’i’ ne sia consolata”. Parafrasi: “il mio amico, che è tale non per caso [ventura] o solo per trarne
vantaggio, si trova bloccato in una zona desolata, tanto da non poter
proseguire il cammino a causa della paura. Ora tu, V., vai da lui e con il tuo
parlare elegante [parola ornata] e con ciò che serve per salvarlo, aiutalo,
affinché io ne sia consolata” (vv. 61-63 e 67-69).
d)
Beatrice afferma che è stata Lucia,
simbolo della grazia divina che illumina, ad avvertirla dello stato spaventoso
in cui D. è caduto e a convincerla della necessità di correre in soccorso
dell’uomo che tanto l’amò. Beatrice allora si convince e scende dal cielo. Dice
V.: “Poscia che m’ebbe ragionato questo, / li occhi lucenti lagrimando volse; /
per che mi fece del venir più presto; / e venni a te così com’ella volse; /
d’inanzi a quella fiera ti levai / che del bel monte il corto andar ti tolse [=ti impedì la via più corta per uscire dalla
selva]” (vv. 115-120).
Sollievo
di D. Il
poeta, ascoltando il racconto di V. sulle parole di Beatrice, e gli
incoraggiamenti dello stesso V., si sente rinfrancato: “Oh pietosa colei che mi
soccorse! / e te cortese ch’ubidisti tosto / a le vere parole [=parole sincere, sentite] che ti porse! /
Tu m’hai con disiderio il cor disposto / sì al venir con le parole tue, / ch’i’
son tornato nel primo proposto [=proposito].
/ Or va, ch’un sol volere è d’ambedue: / tu duca, tu segnore, e tu maestro”
(vv. 133-140). V. è “duca” perché guida il cammino di D., è “segnore” perché a
lui spetta di comandare D. ed è “maestro” perché è modello di poesia e,
nell’inferno, sa che il viaggio di D. è voluto da Dio.
CANTO
III
Il terzo canto conduce i due
pellegrini sulle rive del fiume Acheronte, il corso d’acqua che, come accadeva
anche nell’Eneide virgiliana,
è il confine del regno dei morti. Prima però essi devono attraversare la porta
dell’inferno, alla cui sommità sono scritte le celebri e terribili parole che
invitano, chi la oltrepassa, ad abbandonare ogni speranza di poter tornare
indietro. Subito dopo la porta, il racconto immette il lettore, senza
intermediazioni, nel disperato mondo infernale. “Sospiri”, “pianti” e “alti guai”
risuonano nell’aria nera e tenebrosa. Questa descrizione, desolata e
drammatica, è un primo segno della disperazione senza fine che alberga nel
regno infernale. In questo canto Dante riferisce dei lamenti di un gruppo di
dannati la cui colpa è talmente vile e disprezzata, da non meritare nemmeno di
essere punita in qualcuno dei cerchi dell’inferno vero e proprio. Si tratta
degli ignavi, ossia di coloro che in vita non presero mai una posizione nelle
dispute e nelle battaglia. Tra di essi vi sono anche quegli angeli che, pur non
ribellandosi a Dio, non gli furono pienamente fedeli. Gli ignavi vivono
nell’antinferno e la loro pena, evidente contrappasso, consiste nel dover
inseguire una insegna militare che corre via veloce, mentre sono tormentati da
mosconi e vespe che pungono le loro carni, rigandole di sangue. Tra gli ignavi
a Dante pare di cogliere l'ombra di colui che fece “il gran rifiuto”. Non è
chiaro chi sia costui: gli interpreti sono poco concordi, poiché qualcuno
afferma sia Bonifacio VIII, pontefice inviso a Dante, altri Ponzio Pilato. Ad
ogni modo, Virgilio dice a Dante che tali dannati, per la colpa di cui si sono
macchiati, ossia la viltà, non meritano alcuna attenzione.
Poco oltre, sulla “riviera”
dell’Acheronte, si assiepa la folla dei dannati destinati ai diversi gironi
infernali: questi primo incontro con le anime di chi, condannato a viver
eternamente nell’inferno, attende di essere trasportato al di là del fiume,
consente a Dante di offrire un primo quadro del terribile mondo infernale. I dannati
che attendono il trasporto vengono rimbrottati da Caronte, (“psicopompo”, ossia
“trasportatore di anime”), personaggio mitologico trasformato da Dante in
diavolo, il quale ricorda a tutte loro che, essendo malvagie (“prave”), esse
sono destinate alla sofferenza eterna. Caronte, accorgendosi che Dante è vivo,
si rivolte a lui e Virgilio in modo brusco, rammentando che Dante dovrà
percorrere un’altra via, ossia non sarà destinato all’inferno, quando la sua
ultima ora sarà scoccata. Tuttavia, il mostro infernale è zittito da Virgilio
che, con una celebre forma, gli comunica che il loro viaggio è voluto da colui
che può tutto ciò che vuole, cioè da Dio, e che lui deve solo tacere. La
visione di questa prima zona infernale scuote Dante, il quale a fine canto
avverte un forte terremoto e, per la paura, perde i sensi.
Luogo:
Antinferno e fiume Acheronte.
Momenti:
a)
La porta dell’inferno:
“Per me si va ne la città dolente; / per me si va ne l’etterno dolore; / per me
si va tra la perduta gente. / Giustizia mosse il mio alto fattore; / fecemi la
divina potestate, / la somma sapïenza e ‘l primo amore. / Dinanzi a me non fuor
cose create se non etterne, e io etterna duro. / Lasciate ogni speranza, voi
ch’entrate” (vv. 1-9). Parafrasi: “Attraverso
di me si va nella città infernale; attraverso di me si va verso il dolore
eterno; attraverso di me si va verso i dannati per sempre. La Giustizia ha
mosso l’essere divino (il mio alto fattore) che mi creò; mi hanno costituito la potestà divina (Padre), la somma
sapienza (Figlio) e il primo amore (Spirito Santo). Prima di me non sono
esistite cose se non eterne e io stessa sono eterna. Abbandonate ogni speranza
di salvezza, voi che mi attraversate”.
b) La
schiera degli ignavi o pusillanimi (v.
tra i personaggi). “Quivi sospiri, pianti e alti guai [=urli di dolore] / risonavan per l’aere
sanza stelle, / per ch’io al cominciar ne lagrimai. / Diverse lingue, orribili
favelle, parole di dolore, accenti d’ira…” (vv. 22-26).
c) L’Acheronte:
“... vidi genti a la riva d’un gran fiume; / per ch’io dissi: ‘Maestro, or mi
concedi / ch’i’ sappia quali sono, e qual costume [=atteggiamento]/ le fa trapassar parer sì pronte [=disposte], / com’io discerno per lo
fioco lume’. / Ed elli a me: ‘Le cose ti fier conte [=ti saranno chiare] / quando noi fermeremo li nostri passi / su la
trista [=desolata] riviera di
Acheronte” (vv. 69-78).
d) Caronte
e i due pellegrini. Caronte, accorgendosi che D. è vivo, lo
riprende con queste parole: “‘E tu che se’ costì, anima viva, / pàrtiti da
cotesti che son morti’ / Ma poi che vide ch’io non mi partiva, / disse:
‘Per altra via, per altri porti / verrai a piaggia, non qui, per passare
[=verrai nell’aldilà per una via diversa]: /
più lieve legno [=perché D. non sarà
dannato] convien che ti porti’. Al guardiano infernale, V. risponde con la
formula: “Caron, non ti crucciare: / vuolsi così colà dove si puote / ciò che
si vuole, e più non dimandare” (vv. 94-96). Ossia, il loro viaggio è voluto dal
cielo (“colà”), dove c’è perfetta coincidenza tra ciò che si vuole e ciò che si
può fare (”dove si puote ciò che si
vuole”).
e)
Spiegazione di V. Il
poeta latino spiega cosa avviene alle anime destinate alla dannazione: “quelli
che muoion ne l’ira di Dio / tutti convegnon qui d’ogni paese: / e pronti sono
a trapassar lo rio, / ché la divina giustizia li sprona, / sì che la tema si
volve in disio” (vv. 121-126). L’ultima verso significa che l’anima dannata,
quando comprende qual è il suo terribile e infelice destino, smette quasi di
aver paura, tanto da arrivare persino a desiderare che il suo destino si compia
presto e che finisca l’attesa insopportabile di una condanna eterna e senza
speranza.
Personaggi:
a)
papa
Celestino V? Ponzio Pilato?: “vidi e conobbi l’ombra di colui / che
fece per viltate il gran rifiuto” (vv. 59-60). Secondo la maggioranza degli
interpreti (tra cui G. Inglese), si tratta di papa Celestino V, che nel 1300
lasciò la carica pontificia, assunta poi da quel Bonifacio VIII cui D. imputa
l’essere causa della rovina di Firenze. Ma altri interpreti non concordano con
questa opinione, perché Celestino V (al secolo Pietro del Morrone) fu
canonizzato già nel 1313 ed ebbe fama di santità, venendo spesso contrapposto
proprio a Bonifacio VIII. Il Sapegno per esempio sostiene possa trattarsi di
Ponzio Pilato. Ma aggiunge: “La figura dell’innominato non ha nel contesto un
risalto specifico; è piuttosto un personaggio emblema, termine allusivo di una
disposizione polemica, che investe non un uomo singolo, ma tutta la schiera
innumerevole degli ignavi”.
b)
Caronte
(“un vecchio, bianco per antico pelo”, v. 82)[1],
il nocchiero infernale, trasporta le anime al di là dell’Acheronte. Caronte
rimbrotta le anime dannate, rammentando loro che non hanno speranza alcuna di
salvezza: “Guai a voi, anime prave [=malvagie]! / Non isperate mai veder lo
cielo: / i’ vegno per menarvi a l’altra riva / ne le tenebre etterne, in caldo
e ‘n gelo” (vv. 84-87).
Peccatori: Ignavi (“Questo misero modo / tengon
l’anime triste di coloro / che vissero sanza infama e sanza lodo”, vv. 34-36)
Pena: Gli ignavi, che in vita non presero mai
posizione per viltà, sono condannati a inseguire senza sosta un’insegna, mentre
sono tormentati da insetti che rigano di sangue le loro carni. Il loro sangue,
caduto a terra, diventa cibo per i vermi: “Io, che riguardai, vidi una insegna
[=stendardo militare]/ che girando
correva, tanto ratta [=veloce] / che
d’ogne posa mi pareva indegna [=che non
si fermava mai]. / E dietro le venia sì lunga tratta / di gente, ch’i’ non
avre’ creduto / che morte tanta n’avesse disfatta […]./ Questi sciagurati, che
mai fur vivi, erano ignudi e stimolati molto / da mosconi e vespe ch’eran ivi.
/ Elle rigavan lor di sangue il volto, / che mischiato di lacrime ai lor piedi
/ da fastidiosi vermi era ricolto” (vv. 52-69).
[1] Nella mitologia classica è figlio
dell’Erebo e della Notte. Per Greci, Etruschi e Romani è colui che trasporta le
anime nel regno dei morti, oltrepassando il fiume Acheronte. D. lo trasforma in
diavolo, conservandone la funzione di “psicopompo”. Come per altri personaggi
della mitologia classica trasformati in diavoli, D. lo deforma nell’aspetto, ma
ne conserva la vigoria e il rilievo statutario.
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